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Il contestato Rigoletto di Martone mette in scena l’essenza più autentica del’opera italiana

- di: Barbara Leone
 
Il contestato Rigoletto di Martone mette in scena l’essenza più autentica del’opera italiana
Questa o quella per me pari sono, canta il Duca di Mantova nel Rigoletto. Non per i benpensanti, però. Quelli che ieri hanno fischiato sonoramente per più di dieci minuti l’opera messa in scena da Mario Martone alla Scala di Milano. Che sì, non è certamente stato il solito allestimento del Rigoletto. Quello che da sempre siamo abituati a vedere, col protagonista rappresentato come un povero e amorevole babbo che ballonzola con tanto di gobbone e campanelli in testa e sfida la sorte pur di difendere l’onore della figliuola. In verità Rigoletto tutto è fuorché uno sventurato buffone di corte soggiogato dal potente di turno. Anzi, è proprio una canaglia. Un farabutto calzato e vestito. Uno che appena compare in scena suggerisce di decapitare un marito cornuto, che deride un padre cui hanno violentato la figlia e che, dulcis in fundo, prende accordi con un sicario per far ammazzare il suo capo solo perché è bello, ricco e potente mentre lui povero brutto e meschino. Senza dimenticare poi un altro piccolissimo particolare. E cioè che tiene segregata la figlia Gilda non per troppo amore, ma semplicemente per un tornaconto personale. E cioè perché teme le ritorsioni dei cortigiani che, guarda un po’, vogliono vendicarsi delle sue beffe feroci. Insomma, il protagonista dell’opera verdiana non è certamente uno stinco di santo. Tutt’altro. Del resto basta leggere il libretto dell’opera a firma di Francesco Maria Piave. O magari il dramma di Victor Hugo da cui trae ispirazione, che si intitola “Il re si diverte”. Nessun mistero, dunque. Né congettura strana. Martone ieri  ha messo esattamente questo in scena alla Scala.

Né più ne meno. Senza fronzoli, senza eleganze e nobiltà. Feticci di chi, basandosi sul sentito dire, va all’opera solo perché fa figo. E fa anche tanto intellettuale radical chic. Peccato però che il melodramma italiano non è mai stato né elegante né nobile né tanto meno una roba da intellettuali. Al contrario, è nato per il popolo, ad uso e consumo del popolo che all’epoca non sapeva neanche leggere e scrivere. E nessuno come Verdi, forse, ne ha incarnato alla perfezione quest’essenza. Che poi, vi siete chiesti come mai quasi tutte le opere liriche finiscono a morti ammazzati e si nutrono di storie d’amore e passione ambigue ed in certi casi pure torbide? Di sicuro non sono storie romantiche, nel senso stretto della parola. Carne e sangue: è questo il teatro d’opera, e ancor di più lo è quello verdiano. E Martone l’ha rappresentato alla perfezione. Certo, lo ha fatto con la sua poetica, col suo gusto e sensibilità. Ha forse calcato la mano sui riferimenti contemporanei a base di sesso droga e rock and roll. Che poi, una come Gilda tenuta segregata per tutta la vita da quell’arpia del padre è ovvio che appena mette la testolina fuori di casa si dà alla pazza gioia. Sesso compreso. Ora qualcuno obietterà: ma Verdi non la pensava così. E invece no, perché Giuseppe Verdi era decisamente avanti. E molto più innovatore e anticonformista di quanto si possa pensare. Anche lui, come Rigoletto, non era certamente il vecchino con cappello e barba bianca venuto dalle campagne di Roncole di Busseto che molti pensano. Era una vecchia volpe don Peppino Verdi, uno che ogni due per tre piazzava nelle sue opera messaggi rivoluzionari. Nabucco docet. Magari, per ovvi motivi temporali, non immaginava ambienti fetish e festini a base di droga e sesso. Ma se fosse vissuto nel Terzo millennio probabilmente lo avrebbe fatto eccome. Di sicuro non avrebbe aspirato a far da tappezzeria in un teatro che pare tanto un mausoleo per sepolcri imbiancati. E avrebbe apprezzato la sfida di Martone, che molto semplicemente ha spinto sull’acceleratore proprio per far sì che la Scala, e più in generale la lirica italiana, torni alle sue più autentiche origini. Ovverosia a quell’essere laboratorio artistico e culturale vivo, in perenne fermento, volto a stimolare riflessioni e dibattiti per svegliare un popolo che, forse oggi più che ai tempi di Verdi, dorme sonni profondi. 
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