Nel nuovo rapporto di 173 pagine la Ong parla di sterminio, torture, stupri e ostaggi usati come merce di scambio e rilancia la richiesta di giustizia per tutte le vittime, da Gaza al sud di Israele.
Con un documento di 173 pagine dal titolo eloquente – “Targeting Civilians: Murder, Hostage-Taking and Other Violations by Palestinian Armed Groups in Israel and Gaza” – Amnesty International rompe un tabù interno e per la prima volta accusa esplicitamente Hamas e altri gruppi armati palestinesi di crimini contro l’umanità per l’attacco del 7 ottobre 2023 e per il trattamento degli ostaggi in Gaza.
Non è un semplice aggiornamento di dossier: è un passaggio politico e giuridico che pesa. La stessa organizzazione che negli ultimi anni ha parlato di apartheid israeliano e di “genocidio” a Gaza ora mette nero su bianco che, dall’altra parte, le milizie palestinesi hanno compiuto atrocità sistematiche contro civili. Il messaggio è secco: nessuno è al riparo dal diritto internazionale, né lo Stato d’Israele né chi lo combatte con le armi.
Cosa dice davvero il nuovo rapporto di Amnesty
Il documento, pubblicato l’11 dicembre 2025, analizza in dettaglio gli attacchi coordinati del 7 ottobre contro le comunità israeliane al confine con Gaza e la successiva detenzione di ostaggi nella Striscia. Amnesty conclude che le forze di Hamas e altri gruppi armati hanno condotto un’offensiva pianificata contro obiettivi in prevalenza civili, uccidendo, ferendo e sequestrando persone senza alcuna distinzione tra combattenti e non combattenti.
Secondo l’organizzazione, l’attacco ha causato la morte di circa 1.221 persone in Israele, la maggior parte civili, e il rapimento di 251 ostaggi, tra cui anziani, donne, bambini, lavoratori migranti e cittadini beduini. Una parte delle persone sequestrate era già priva di vita al momento della cattura; la grande maggioranza è stata portata viva in Gaza e tenuta in condizioni che Amnesty definisce “disumane”.
Il cuore del rapporto è la qualificazione giuridica: le uccisioni di massa, i rapimenti e i maltrattamenti non sono descritti solo come crimini di guerra – definizione già utilizzata nei mesi precedenti – ma come crimini contro l’umanità. Vengono elencati, tra gli altri, omicidio, sterminio, imprigionamento illegale, tortura, sparizione forzata, stupro e altre forme di violenza sessuale.
Per Amnesty, il quadro complessivo mostra una “campagna ampia e sistematica” contro la popolazione civile: è esattamente il requisito che, secondo lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale, trasforma singoli atti di violenza in crimini contro l’umanità.
Numeri, ostaggi, violenze: l’architettura delle accuse
Nel 7 ottobre e nei giorni immediatamente successivi, i combattenti palestinesi hanno preso in ostaggio centinaia di persone da kibbutz, città di confine, strade e dall’area del festival musicale Supernova. Il rapporto ricostruisce come gli ostaggi siano stati dispersi in una rete di tunnel e rifugi dentro Gaza, spesso incatenati, bendati, sottoposti a privazioni e minacce di esecuzione.
Amnesty documenta casi in cui i rapiti sono stati picchiati, denutriti, privati del sonno e costretti a vivere per mesi in spazi angusti. Alcuni sono stati uccisi in prigionia. Vengono riportate anche testimonianze e indizi di violenze sessuali – aggressioni, minacce di matrimonio forzato o di stupro, umiliazioni a sfondo sessuale – che la Ong qualifica come possibili crimini di guerra e crimini contro l’umanità, pur precisando che la portata complessiva di questi abusi non è ancora accertabile in modo pienamente statistico.
Nel linguaggio asciutto del diritto, Amnesty sostiene che Hamas e i gruppi alleati abbiano praticato “detenzione arbitraria e ostaggi” su larga scala, usando le persone sequestrate come “strumento di pressione politica e militare” nei negoziati sul cessate il fuoco e sullo scambio di prigionieri.
Alla data di pubblicazione del rapporto, tutte le persone ancora vive sono state liberate nell’ambito di accordi di cessate il fuoco, mentre il corpo di un ufficiale israeliano risulta ancora trattenuto nella Striscia. Amnesty chiede esplicitamente la restituzione immediata di quel corpo ai familiari.
Perché ora si parla di crimini contro l’umanità
Fino a oggi Amnesty – come molte altre organizzazioni – aveva parlato del 7 ottobre nei termini di crimini di guerra: uccisioni intenzionali di civili, rapimenti, trattamenti crudeli e degradanti, uso di razzi indiscriminati. Il salto di qualità del nuovo documento sta proprio nel riconoscimento che questi atti non sono stati episodi isolati, ma parte di un attacco coordinato, su vasta scala, contro una popolazione civile in quanto tale.
Lo Statuto di Roma definisce crimini contro l’umanità una serie di condotte – dall’omicidio allo stupro, dalla deportazione alla persecuzione – quando sono commesse come parte di un’“offensiva diffusa o sistematica contro una popolazione civile” e chi le compie è consapevole di inserirsi in questo contesto. In altre parole: non serve che ci sia uno Stato dietro, basta un’organizzazione con una politica chiara e un piano deliberato.
Secondo il rapporto, questo è esattamente il caso del 7 ottobre: Hamas e altri gruppi armati avevano un progetto esplicito di attacco ai civili con l’obiettivo di prendere ostaggi. Le comunicazioni tra combattenti, i video diffusi in tempo reale e le dichiarazioni pubbliche dei leader vengono usati come prova di una strategia costruita a tavolino, non come risultato del caos di un singolo giorno di guerra.
Per la segretaria generale di Amnesty, Agnès Callamard, questi atti costituiscono “atrocità” che richiedono una risposta giudiziaria internazionale, indipendentemente da ciò che ha fatto o continua a fare Israele. La formula è chiara: nessun crimine può essere giustificato da un altro crimine.
Non solo Hamas: le altre milizie nel mirino
Il rapporto non si ferma a Hamas. Amnesty attribuisce un ruolo centrale all’ala militare del movimento, le Brigate al Qassam, ma chiama in causa anche la Palestinian Islamic Jihad, le Brigate dei martiri di al-Aqsa e altri gruppi o miliziani non affiliati che hanno partecipato all’attacco o ai sequestri.
Questa fotografia è coerente con altre indagini indipendenti, come quella di Human Rights Watch, che già nel 2024 aveva individuato almeno cinque formazioni armate coinvolte nel massacro del 7 ottobre, confermando la natura “multi-gruppo” dell’operazione.
Amnesty, però, è netta: la responsabilità principale ricade su Hamas, che ha pianificato e guidato l’attacco e che ha gestito la maggior parte degli ostaggi. Gli altri gruppi, pur chiamati in causa, avrebbero avuto un ruolo subordinato o locale.
Il contesto: il massacro del 7 ottobre e la guerra che ne è seguita
L’attacco del 7 ottobre 2023 viene definito da molti governi il peggior massacro di ebrei dalla Shoah. Miliziani provenienti da Gaza hanno attraversato le barriere di confine via terra, aria e mare, colpendo kibbutz, cittadine, postazioni militari e un rave nel deserto. L’esercito israeliano è stato colto di sorpresa; per ore intere aree del sud di Israele sono rimaste senza difesa.
La risposta dello Stato ebraico ha aperto una delle campagne militari più distruttive dell’era contemporanea. Secondo le stime citate dall’ONU e riprese anche da Amnesty, nelle operazioni israeliane su Gaza sono stati uccisi oltre 70.000 palestinesi e centinaia di migliaia di persone sono state ferite o sfollate, spesso più volte, in un contesto di distruzione diffusa di infrastrutture civili, ospedali, scuole, reti idriche ed elettriche.
Questo scenario è il retrofondo ineludibile del nuovo rapporto: Amnesty insiste sul fatto che la sofferenza palestinese non attenua in alcun modo la gravità dei crimini commessi dalle milizie il 7 ottobre e dopo, così come le atrocità di quel giorno non autorizzano la devastazione di Gaza.
Le accuse ad Hamas e quelle a Israele: un doppio binario
Un aspetto politicamente esplosivo del dossier è il suo inserimento nel lavoro più ampio di Amnesty sulla regione. Nel dicembre 2024, la stessa Ong aveva pubblicato un’analisi legale in cui accusava Israele di “genocidio” contro i palestinesi di Gaza, sostenendo che l’offensiva militare, le restrizioni sugli aiuti, la fame indotta e gli sfollamenti di massa rispondevano a diversi criteri della Convenzione sul genocidio. Israele ha respinto quelle accuse come infondate e caricaturali.
Nel testo diffuso l’11 dicembre 2025, Amnesty ribadisce quella valutazione: parla di “genocidio in corso”, di sistema di apartheid e di occupazione illegale di lunga durata. Allo stesso tempo, però, riconosce che questo contesto di violenze strutturali contro i palestinesi non giustifica in alcun modo il massacro del 7 ottobre, né l’uso degli ostaggi.
Amnesty chiede quindi che la Corte penale internazionale (CPI) continui a indagare sia sui crimini commessi dalle forze israeliane, sia su quelli attribuiti a Hamas e agli altri gruppi armati palestinesi, senza eccezioni e senza zone franche. L’idea è quella di un doppio binario di responsabilità: nessuna parte può rivendicare l’impunità in nome del proprio trauma.
Cpi, mandati di arresto e il nodo della giustizia internazionale
Il rapporto arriva in un momento in cui il dossier israelo-palestinese è già entrato pienamente nei radar della giustizia internazionale. La CPI ha emesso mandati di arresto contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, accusandoli di crimini di guerra e crimini contro l’umanità per la conduzione della guerra a Gaza. Gli ordini restano formalmente attivi.
In passato, il procuratore della Corte aveva chiesto mandati anche contro figure di vertice di Hamas, tra cui l’allora capo politico Ismail Haniyeh e il leader militare Mohammed Deif, sospettati di responsabilità nell’attacco del 7 ottobre. Quelle richieste sono state ritirate dopo l’uccisione dei tre leader da parte di Israele, ma la “situazione in Palestina” continua a essere oggetto di indagine.
Amnesty insiste affinché gli Stati cooperino con la CPI, eseguano gli eventuali arresti nei loro territori, sostengano le indagini e, dove possibile, aprano procedimenti nazionali basati sul principio della giurisdizione universale per i crimini più gravi. L’obiettivo dichiarato è spezzare il ciclo di impunità che da decenni accompagna il conflitto.
La metodologia: testimonianze, video, sopralluoghi
Per costruire il dossier, i ricercatori di Amnesty hanno intervistato decine di sopravvissuti agli attacchi del 7 ottobre, ex ostaggi, familiari delle vittime, medici, legali, investigatori e giornalisti. Sono stati analizzati centinaia di video e fotografie, comprese le immagini diffuse dagli stessi miliziani sui social, oltre a documenti forensi e rapporti di altre organizzazioni.
Il rapporto include sopralluoghi in alcuni dei luoghi colpiti – kibbutz, strade, siti del festival – e incrocia testimonianze diverse per ricostruire cronologie, movimenti delle unità armate e modalità delle esecuzioni o dei rapimenti.
Questa impostazione è simile a quella utilizzata da altre Ong, come Human Rights Watch, che nel 2024 aveva già parlato di “esecuzioni a sangue freddo, rapimenti di massa e uso sistematico degli ostaggi” da parte dei gruppi palestinesi. Amnesty, però, va oltre, collegando quei fatti alla struttura legale dei crimini contro l’umanità.
La posizione di Hamas e le zone d’ombra
Hamas, nelle sue dichiarazioni pubbliche precedenti, ha sempre sostenuto che le proprie forze non avrebbero deliberatamente preso di mira civili, attribuendo una parte significativa delle vittime al fuoco dell’esercito israeliano nel tentativo di respingere l’attacco. Secondo il movimento islamista, molti morti sarebbero il risultato di “fuoco amico” o di bombardamenti israeliani sulle aree degli scontri.
Amnesty respinge questa lettura come insostenibile alla luce delle prove raccolte: i video girati dagli stessi combattenti, le testimonianze dei sopravvissuti, le scene di case, strade e rifugi crivellati di colpi a distanza ravvicinata, l’uso di granate per far uscire famiglie intere dai bunker domestici. L’organizzazione riconosce che alcune persone sono state uccise da fuoco israeliano, ma sostiene che la grande maggioranza delle vittime civili sia stata “intenzionalmente e direttamente” colpita dai miliziani palestinesi.
Restano comunque numerosi interrogativi aperti: la catena di comando esatta in alcune aree, il ruolo di gruppi locali non formalmente affiliati, la reale estensione delle violenze sessuali. Amnesty stessa sottolinea che il lavoro investigativo non è concluso e che potrebbero emergere ulteriori elementi nelle prossime inchieste – comprese quelle della CPI e di eventuali commissioni d’inchiesta indipendenti.
La guerra delle narrazioni e il rischio di strumentalizzazione
È scontato che il nuovo rapporto verrà usato come arma retorica da tutti gli attori in campo. Il governo israeliano lo indicherà come ulteriore conferma della natura “terroristica e genocidaria” di Hamas e della necessità di mantenerlo al bando internazionale. I sostenitori della causa palestinese più radicale accuseranno probabilmente Amnesty di aver ceduto a pressioni occidentali o di “equidistanza” artificiale.
La sfida, per l’organizzazione, è evitare che la sua analisi venga letta come un ridimensionamento delle accuse rivolte a Israele. Nei comunicati diffusi contestualmente al rapporto, Amnesty ribadisce che le operazioni israeliane a Gaza continuano, a suo giudizio, a violare il divieto di genocidio e i divieti di crimini di guerra e contro l’umanità. L’idea è di rompere la logica del “tifo per una parte”: non si tratta di scegliere chi ha più torto, ma di perseguire tutti i responsabili di crimini internazionali.
Questa impostazione mette però a disagio più di un attore politico: per i governi occidentali, abituati a condannare Hamas e a usare toni più cauti verso Israele, la linea Amnesty può apparire “sbilanciata”. Per molti attivisti pro-palestinesi, l’attenzione sui crimini delle milizie rischia di oscurare la disparità di potere e di mezzi tra le parti.
Cosa può succedere adesso
Dal punto di vista legale, il rapporto di Amnesty non ha effetti automatici: non è una sentenza, ma una base probatoria che può essere usata da procuratori nazionali e internazionali, da commissioni d’inchiesta, da tribunali civili o penali in vari Paesi.
Nel medio periodo, il dossier potrebbe rafforzare:
- le indagini della Corte penale internazionale su crimini commessi sia da Israele sia da gruppi palestinesi;
- eventuali cause civili e penali intentate da familiari delle vittime in Stati che prevedono la giurisdizione universale per crimini internazionali;
- le richieste di sanzioni mirate contro comandanti e dirigenti politici di Hamas e delle altre milizie coinvolte;
- la pressione affinché l’Autorità Nazionale Palestinese e altri attori palestinesi riconoscano pubblicamente le violazioni e aprano inchieste interne.
Sul piano politico, la mossa di Amnesty è un promemoria brutale: non ci sono scorciatoie militari verso la sicurezza o la liberazione. Senza un percorso di giustizia – che includa responsabilità penali reali per i crimini commessi da tutte le parti – ogni cessate il fuoco rischia di essere solo una pausa tra due cicli di violenza.