San Siro non è solo un tempio del calcio, ma una macchina sociale. Dentro, nelle curve, si addensa da decenni un potere che sfugge al controllo delle istituzioni sportive e spesso anche a quello giudiziario. Non è più il tempo del folklore, dei tamburi e degli striscioni: qui si traffica, si presta denaro, si minaccia, si fattura. E si uccide.
Le curve, la mafia e il potere: lo stadio come laboratorio criminale
Un’altra retata scuote Milano, sette nuovi arresti. Cinque in carcere, due ai domiciliari. Un nuovo filone, ma lo schema è sempre lo stesso: estorsioni, usura, fatture false, e quella aggravante che fotografa con esattezza il salto di qualità – la finalità mafiosa. In mezzo nomi noti, ambienti grigi, vecchie conoscenze. Tra i fermati Mauro Russo, imprenditore ed ex socio d’affari di Paolo Maldini e Christian Vieri – due figure estranee alle indagini, ma inevitabilmente lambite dal peso simbolico di una vicinanza economica con chi oggi è accusato di avere spalancato le curve alla criminalità.
Il calcio come spazio di legittimazione
Lo stadio è uno spazio pubblico peculiare. È insieme rituale e mercato, luogo sacro e fiera commerciale. È lì che i clan si insediano non per passione sportiva, ma per convenienza strategica. Le curve – la Nord interista, la Sud milanista – non sono semplici spazi di tifo. Sono comunità chiuse, dove il carisma si misura con la violenza, la fedeltà con l’omertà, il potere con l’intimidazione. Dentro quelle curve si crea consenso, si esercita controllo, si ricicla denaro. E nel vuoto di autorità credibili, tra la distrazione dei club e la sottovalutazione delle leghe, le organizzazioni mafiose hanno trovato terreno fertile. Come sempre, dove lo Stato si ritrae, qualcun altro occupa lo spazio.
La ‘ndrangheta e l’eredità della violenza
Al centro di questa nuova inchiesta c’è ancora la famiglia Bellocco, clan radicato nel tessuto della ‘ndrangheta calabrese, capace di estendere le sue ramificazioni ben oltre i confini geografici della regione. Antonio Bellocco, figura centrale del gruppo, è stato ucciso a settembre scorso da Andrea Beretta, ex capo ultrà, anche lui già noto agli investigatori. Una vendetta, un epilogo interno. Ma nel frattempo, la rete costruita intorno al suo nome ha continuato a operare. Gli inquirenti parlano di un rapporto diretto tra la sua figura e la “società interista”, in una sovrapposizione che dovrebbe far tremare più di una dirigenza calcistica. La commistione tra club e malavita non è più una deviazione occasionale. È diventata una delle regole non scritte del gioco.
Il sistema calcio, specchio del sistema Italia
Ciò che accade a San Siro non è un’anomalia, è una lente. Il calcio italiano è attraversato da un corpo estraneo che si alimenta di vuoti normativi, di connivenze, di ignoranza istituzionale. È il punto di intersezione tra il mondo della passione e quello del potere, dove la logica del tifo si presta a diventare strumento di pressione. Gli ultrà non sono più solo tifosi, ma operatori di ordine e disordine, a seconda di come si gioca la partita fuori dal campo. E le mafie, come sempre, annusano il consenso, lo piegano, lo comprano.
Una resa che non è solo sportiva
Il vero problema è culturale. La retorica della curva romantica ha protetto troppo a lungo un mondo dove la violenza è prassi, il ricatto consuetudine. Si è chiuso un occhio per non disturbare il business, si è taciuto per non compromettere la coreografia domenicale. Ma mentre lo stadio diventava teatro, sul retro palco si stringevano alleanze tra crimine e potere. Ora che la giustizia arriva, con lentezza e fatica, la domanda è: chi ha lasciato che tutto questo accadesse? E quanti oggi, tra le poltrone dei club, fingono ancora di non sapere?