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Il decreto Università è legge: tra stabilizzazioni e nuove forme di precariato

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Il decreto Università è legge: tra stabilizzazioni e nuove forme di precariato
La Camera ha approvato in via definitiva il decreto Università, trasformando in legge il provvedimento che ridisegna una parte significativa dell’architettura del sistema accademico e della ricerca italiana. Una norma che interviene su più fronti, dai fondi per gli enti pubblici di ricerca alla regolamentazione dei contratti per ricercatori e docenti, fino al rafforzamento della governance ministeriale.

Il decreto Università è legge: tra stabilizzazioni e nuove forme di precariato

Il decreto prevede uno stanziamento complessivo di 160 milioni di euro nel triennio 2025‑2027 destinati agli enti pubblici di ricerca. La misura più attesa riguarda però il Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), dove si sblocca finalmente il percorso di stabilizzazione per una parte dei circa 12 mila dipendenti, di cui quasi un terzo in condizioni di precariato. Le risorse – 9 milioni nel 2025, 12,5 nel 2026 e 10,5 nel 2027 – serviranno a garantire contratti a tempo indeterminato ad alcuni dei ricercatori oggi impiegati con forme contrattuali temporanee.

Le nuove figure contrattuali

Accanto a questo intervento, il decreto introduce nuove tipologie di contratti: post‑doc, ricercatori a tempo determinato e professori aggiunti. L’obiettivo dichiarato è quello di allineare il sistema universitario italiano agli standard internazionali, rendendo più flessibili i percorsi accademici e aprendo spazi di mobilità. Ma per sindacati e associazioni di categoria, dalla Flc‑Cgil all’ADI fino all’UDU, il rischio è un altro: quello di istituzionalizzare un “precariato di lungo corso” che già oggi caratterizza l’università italiana. I dati parlano chiaro: sono circa 35 mila i ricercatori cosiddetti “preruolo”, e solo il 10% ha reali prospettive di stabilizzazione. Per molti, il tempo medio per arrivare a una posizione strutturata può superare i 15 anni.

Le misure per il Sud e la sanità

Il decreto stanzia inoltre 150 milioni di euro a sostegno del Piano “Ricerca Sud 2021‑2027”, destinato a potenziare gli ecosistemi dell’innovazione e a ridurre il divario tra atenei settentrionali e meridionali. Una misura che si inserisce nel più ampio quadro degli investimenti PNRR e che punta a trattenere competenze e talenti in aree tradizionalmente penalizzate.

Sul fronte sanitario, viene rafforzata la collaborazione tra università e ospedali, con la possibilità per medici e sanitari in servizio di affiancare gli specializzandi nelle strutture. Allo stesso tempo, il provvedimento estende le coperture INAIL anche agli studenti e ai tirocinanti impegnati in attività di formazione pratica.

Governance e prospettive

Il testo proroga il mandato del Consiglio Universitario Nazionale fino al 31 dicembre 2025 e rafforza la struttura del ministero dell’Università, che potrà assumere nuovo personale e gestire con maggiore autonomia i fondi legati al PNRR. Una scelta che va nella direzione di consolidare il ruolo del dicastero in una fase di profonda trasformazione.

Le critiche

Nonostante i passi avanti, le critiche non si sono fatte attendere. I sindacati e le associazioni studentesche denunciano un impianto che, pur con risorse aggiuntive e qualche apertura alle stabilizzazioni, continua a lasciare insoluto il tema principale: la precarietà strutturale che affligge generazioni di ricercatori e docenti. L’accusa è di non aver avviato un vero piano straordinario di stabilizzazione, ma di aver piuttosto moltiplicato le figure contrattuali temporanee.

Un banco di prova

Il decreto Università diventa così il nuovo banco di prova per il governo e per l’intero sistema accademico. Da una parte, la necessità di modernizzare regole e procedure per rendere il Paese competitivo nel panorama internazionale della ricerca; dall’altra, la richiesta di garantire condizioni di lavoro stabili e dignitose a chi, nei laboratori e nelle aule, porta avanti quotidianamente la missione universitaria.
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