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Informazioni, editori contro le big tech: l’Italia teme il black out

- di: Jole Rosati
 
Informazioni, editori contro le big tech: l’Italia teme il black out
Editori contro le big tech: l’Italia teme il black out
Pubblicità in fuga, contenuti “saccheggiati” e tasse minime: editori, governo e Ue si giocano ora la partita decisiva per salvare l’informazione professionale.

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Nella Sala Koch del Senato, a Roma, non si è parlato solo di algoritmi e piattaforme: si è parlato del rischio di spegnere l’interruttore dell’informazione italiana. Il presidente della Fieg, Andrea Riffeser Monti, ha avvertito senza giri di parole: se non arrivano regole chiare per le big tech e una vera legge di sistema per l’editoria, il Paese può finire in un “black out” informativo.

Al suo fianco, il sottosegretario all’editoria Alberto Barachini, il capogruppo azzurro al Senato Maurizio Gasparri, la manager Mediaset Gina Nieri e, sullo sfondo, i tre libri appena pubblicati da Silvio Berlusconi Editore dedicati al potere delle piattaforme digitali. Un parterre che, di fatto, ha trasformato il convegno dal titolo eloquente – “Lo strapotere delle big tech. Editori responsabili e giganti sregolati” – in una sorta di stato generale dell’informazione italiana.

Perché si parla di “black out” dell’informazione

Il paradosso messo sul tavolo dagli editori è netto: i lettori non sono spariti, sono spariti i ricavi. Riffeser ha ricordato che, circa vent’anni fa, i quotidiani italiani avevano poco più di 20 milioni di lettori al giorno; oggi, tra copie vendute e utenti unici online, le testate arrivano a circa 33,9 milioni di contatti. L’informazione si consuma di più, ma vale molto meno sul piano economico.

Il problema è dove finiscono i soldi. A fronte di un aumento dell’esposizione ai contenuti giornalistici, secondo la ricostruzione del presidente Fieg, la pubblicità dell’editoria tradizionale si è praticamente dimezzata, mentre quote crescenti di investimenti pubblicitari vengono intercettate dalle grandi piattaforme globali.

Il quadro è confermato anche dai numeri dell’Osservatorio sulle comunicazioni di Agcom, diffusi nell’aprile 2024 e ripresi dalla Fnsi: nel 2023 sono state vendute in media 1,41 milioni di copie di quotidiani al giorno, in calo dell’8,8% rispetto al 2022; le copie cartacee sono scese a circa 1,2 milioni (-10% in un anno), mentre il digitale si ferma a circa 210mila copie giornaliere, sostanzialmente fermo nonostante quattro anni di transizione digitale.

Ancora più drastici i dati sui ricavi pubblicitari: un’analisi pubblicata nel 2024 sul periodico “New Tabloid” dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, basata su dati Agcom, ricorda che nel 2023 i quotidiani hanno raccolto circa 420 milioni di euro di pubblicità, il 4% in meno rispetto al 2022 e quasi la metà degli 809 milioni di dieci anni prima. La quota di mercato della pubblicità sui quotidiani è scesa al 4,6%, contro il 10,7% del 2014, mentre gli investimenti complessivi crescevano e si spostavano sul web.

Il risultato? Una compressione strutturale dei conti: stipendi in calo, redazioni ridotte, meno presidi locali, meno inchieste, meno capacità di “stare sul territorio”. È questo che per gli editori significa “black out”: non lo spegnimento fisico dei giornali, ma la progressiva estinzione del giornalismo professionale a favore di un ecosistema dominato da contenuti non verificati e algoritmi opachi.

Pubblicità in fuga e addio alla pubblicità legale

Alla crisi strutturale del mercato si aggiungono scelte normative che hanno ulteriormente indebolito i bilanci editoriali. Dal 2024, per effetto del nuovo Codice dei contratti pubblici, è venuto meno l’obbligo per le amministrazioni di pubblicare bandi e gare sui quotidiani: la cosiddetta “pubblicità legale” si sposta su piattaforme digitali pubbliche, come la banca dati nazionale dei contratti pubblici e l’Ufficio delle pubblicazioni dell’Unione europea.

Secondo le stime citate nello stesso “New Tabloid”, questo passaggio vale una perdita di circa 40 milioni di euro annui, che colpisce soprattutto la stampa locale, quella più fragile e al tempo stesso più decisiva per il pluralismo informativo nei territori.

Per compensare, lo Stato è intervenuto con strumenti emergenziali: il Fondo straordinario per l’editoria, istituito nel 2021 e rifinanziato negli anni successivi, e il credito d’imposta sulla carta, che copre parte del costo della materia prima. Ma sono misure “a tempo”, non una cornice stabile. Proprio per questo Riffeser parla di necessità di una legge di struttura che sostituisca la logica del tamponamento continuo.

Lo scontro con le big tech: contenuti “saccheggiati” e tasse minime

Il cuore politico del dibattito è il rapporto squilibrato tra editori e piattaforme globali. Secondo gli editori, i contenuti prodotti dalle redazioni vengono usati per anni dalle big tech per alimentare motori di ricerca, social network, sistemi di raccomandazione e, oggi, anche modelli di intelligenza artificiale generativa, senza un ritorno economico adeguato.

Al convegno del Senato, la manager di Mediaset Gina Nieri ha descritto come un vero “macigno competitivo” il fatto che chi si assume la responsabilità legale e professionale dell’informazione debba competere con colossi che per anni hanno potuto sfruttare contenuti non remunerati, accumulando profitti e quote di mercato.

Sul fronte politico, Maurizio Gasparri ha parlato apertamente di “saccheggio digitale”: i giganti della rete, ha ricordato in più interventi pubblici recenti, non solo drenano la pubblicità, ma spesso finiscono per pagare nei Paesi dove operano aliquote fiscali effettive dell’1-2%, mentre le imprese editoriali nazionali sono sottoposte a un carico impositivo ben più pesante. Una concorrenza che viene definita “sleale” e incompatibile con un mercato veramente liberale.

Il sottosegretario Barachini ha colto la stessa linea: le big tech di fatto “incidono nella selezione delle notizie che arrivano ai cittadini”, aggiungendo al potere economico un potere editoriale di fatto, senza nessuno degli obblighi che gravano su giornali, radio e tv. Per questo, ha insistito sulla necessità di rafforzare il sistema dei contributi pubblici e di far partecipare i grandi player internazionali al sostegno dell’editoria tradizionale.

La cornice europea: Copyright, equo compenso, DSA e DMA

Il tema non è solo italiano. L’Unione europea negli ultimi anni ha varato una serie di norme che vanno proprio nella direzione evocata da editori e governo, ma che, per il momento, vengono percepite come incomplete o troppo lente.

Con la Direttiva (UE) 2019/790 sul diritto d’autore nel mercato unico digitale – la cosiddetta direttiva Copyright – l’Europa ha introdotto un nuovo diritto connesso per gli editori di stampa e ha stabilito che le piattaforme che sfruttano online pubblicazioni giornalistiche debbano riconoscere un equo compenso. In Italia la direttiva è stata recepita con il d.lgs. 177/2021, che ha inserito nella legge sul diritto d’autore l’articolo 43-bis: gli operatori della società dell’informazione sono tenuti a pagare gli editori per l’utilizzo online delle loro pubblicazioni, con l’Agcom chiamata a fissare criteri e, se necessario, a determinare le somme in caso di mancato accordo.

Dal 2024 sono inoltre pienamente applicabili il Digital Services Act (DSA) e il Digital Markets Act (DMA), il “pacchetto” Ue che disciplina società di servizi digitali e piattaforme-gatekeeper. Il DSA interviene su responsabilità nella moderazione dei contenuti, trasparenza degli algoritmi e obblighi per le piattaforme molto grandi; il DMA impone regole di concorrenza ai “gatekeeper” digitali: uso dei dati, interoperabilità, stop a pratiche esclusive.

Per gli editori, però, questo quadro normativo non si è ancora tradotto in un riequilibrio reale dei rapporti di forza: il negoziato sull’equo compenso procede spesso a fatica, le cause sono complesse e costose, e molte piccole testate non hanno la struttura per sedersi al tavolo con i colossi globali.

Cosa chiedono gli editori italiani

Da qui la richiesta, ribadita da Riffeser anche in una lettera inviata alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, di una “legge di sistema” per l’editoria, capace di andare oltre i contributi annuali e gli interventi spot. Gli elementi chiave, nella visione degli editori, sono almeno quattro.

  1. Riequilibrio fiscale. Non basta invocare la digital tax o eventuali imposte sovranazionali: per gli editori servono meccanismi che, a parità di ricavi generati nel mercato italiano, rendano l’onere fiscale delle piattaforme più vicino a quello sostenuto dalle imprese editoriali locali. In sostanza: chi monetizza sul mercato italiano deve contribuire in modo proporzionato.

  2. Attuazione effettiva dell’equo compenso. La norma esiste, ma va resa operativa con regole chiare, tempi certi e strumenti semplificati per le testate medio-piccole. L’idea è che l’utilizzo dei contenuti giornalistici da parte di motori di ricerca, social e aggregatori generi automaticamente una quota di ricavi da redistribuire agli editori.

  3. Stabilità del sostegno pubblico. Il sistema dei contributi – dal credito d’imposta sulla carta alle misure per la distribuzione e alla transizione digitale – viene rivisto di anno in anno, con grande incertezza. Gli editori chiedono un quadro pluriennale, legato a obiettivi misurabili (innovazione, occupazione, qualità dell’informazione) e non a interventi emergenziali.

  4. Riconoscimento dell’informazione “certificata”. Al centro della proposta c’è una distinzione netta tra contenuti prodotti da giornalisti iscritti all’albo, in redazioni soggette a responsabilità legale, e contenuti generici che circolano online. Per Riffeser, la legge dovrebbe incentivare – anche economicamente – la fruizione di informazione verificata, senza comprimere la libertà di espressione dei singoli.

Democrazia, algoritmi e coscienza critica

Sullo sfondo c’è un tema che va oltre i conti economici: la tenuta democratica. Barachini ha collegato esplicitamente il destino dell’editoria al diritto dei cittadini a formarsi una coscienza critica e a partecipare alla vita democratica. Se l’informazione professionale arretra e lo spazio viene occupato da contenuti non verificati, rumor e disinformazione, si indebolisce il processo stesso con cui l’opinione pubblica si forma.

Il rischio, in altre parole, è che gli algoritmi delle big tech diventino i nuovi direttori editoriali invisibili, decidendo – in base a logiche commerciali e di engagement – cosa mostrare a chi, in quale ordine, con quali priorità. Senza l’argine di un sistema di media responsabili, con regole e responsabilità, l’ecosistema pubblico potrebbe trasformarsi in un flusso indistinto di contenuti guidato solo dalla capacità di suscitare click.

Per questo, nel dibattito di Palazzo Madama, il richiamo al ruolo dell’Europa è stato costante: le piattaforme operano su scala globale, e una normativa puramente nazionale rischia di essere troppo debole. Serve, nella visione espressa da Gasparri, un quadro internazionale che affianchi e rafforzi quello europeo già esistente, aggiornandolo alla velocità dell’innovazione tecnologica.

Tra IA generativa e nuove sfide: chi racconterà l’Italia di domani

Sullo sfondo del confronto c’è anche l’onda lunga dell’intelligenza artificiale generativa, che si nutre in parte proprio dei contenuti prodotti dall’editoria. Gli editori temono una seconda ondata di “saccheggio”: dopo anni in cui piattaforme e aggregatori hanno usato i loro articoli per fare audience e pubblicità, ora gli stessi testi diventano materia prima per sistemi che generano riassunti, notizie e commenti, potenzialmente sostituendo le testate nella relazione diretta con il lettore.

Senza un quadro di tutele adeguato, l’editoria rischia di finanziare involontariamente la tecnologia che la erode. Di qui la richiesta di far rientrare in modo chiaro anche l’addestramento dei modelli di IA nei meccanismi di equo compenso e nelle trattative tra editori e piattaforme.

La domanda, in fondo, è semplice e radicale: chi racconterà l’Italia nei prossimi dieci anni? Redazioni con giornalisti pagati, con doveri deontologici e responsabilità legali, o una somma di flussi anonimi gestiti da algoritmi proprietari? L’“allarme black out” lanciato dagli editori non è solo l’ennesima richiesta di aiuti al settore: è la rivendicazione di un ruolo pubblico della stampa, che chiede di essere messa in condizione di competere ad armi meno spuntate.

Non è una guerra contro la tecnologia

Nessuno, nei palazzi romani, invoca un ritorno al mondo di ieri. Lo stesso Gasparri ha rivendicato di aver anticipato, con la riforma del sistema radiotelevisivo del 2004, la realtà multimediale di oggi. Il messaggio che arriva dal fronte dell’editoria è più preciso: il progresso digitale va governato, non subito.

Da una parte ci sono imprese che assumono giornalisti, pagano contributi, investono in redazioni, distribuzione, archivi; dall’altra colossi globali che organizzano, indicizzano e monetizzano quei contenuti, spesso versando al fisco una quota minima e riconoscendo agli editori una fetta marginale del valore creato.

La scelta politica è davanti al governo Meloni e alle istituzioni europee: lasciare che la dinamica prosegua fino a un “black out” dell’informazione professionale, o costruire una nuova architettura di regole – fiscali, antitrust, di diritto d’autore e di sostegno pubblico – che consenta all’editoria di non vivere in perenne emergenza. La tecnologia, ricordano in molti, è benvenuta. Ma senza pluralismo, responsabilità e regole, il prezzo da pagare potrebbe essere la qualità stessa della nostra democrazia.

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