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Se ne va a 88 anni Goffredo Fofi, una delle coscienze più inquiete della cultura italiana. Non tanto un semplice critico, non solo un educatore, ma un intellettuale a tutto tondo, che ha fatto del dissenso la cifra della sua vita. Non un bastian contrario per posa, ma un uomo profondamente e sinceramente allergico al conformismo, anche quello che si travestiva da anticonformismo.
È morto Goffredo Fofi, l’ultimo intellettuale “eretico”
Fofi ha percorso decenni di storia culturale italiana senza mai aderire a nessun potere costituito: né accademico, né editoriale, né politico. La sua indipendenza non era un atteggiamento, ma un istinto, un bisogno esistenziale. Ogni volta che un’idea diventava dogma, ogni volta che una battaglia diventava liturgia, lui si sfilava. Non era una fuga: era una forma di resistenza.
L’infanzia tra guerra e libri
Nato a Gubbio nel 1937, figlio di un artigiano socialista che riparava biciclette e poi emigrò a Parigi per lavorare come gruista, Goffredo conobbe da bambino l’orrore della guerra. Visse sulla sua pelle la strage nazista che colpì la sua città. Eppure, in quella casa modesta circolavano libri, giornali, e il cinema era una finestra sul mondo. Un’educazione sentimentale che si sedimentò presto, facendolo diventare un lettore vorace e uno spettatore incantato. Bocciato da una professoressa distratta in quarta ginnasio, si iscrisse alle magistrali. E appena diciottenne, partì per la Sicilia, al seguito di Danilo Dolci, il “Gandhi italiano”.
Là, in quei territori spogliati dallo Stato, scoprì la sua vocazione più profonda: quella di operare nel mondo, con i poveri, con gli ultimi. Gli scioperi a rovescio, i bambini abbandonati, le azioni di disobbedienza civile. Era un giovane pieno di fuoco che trovava nella giustizia sociale non un’idea astratta, ma una missione concreta.
Dal Sud al Nord, ma sempre dalla parte degli ultimi
A Torino, nel cuore dell’Italia operaia del boom, pubblicò un libro memorabile sull’immigrazione meridionale, osservando il fenomeno con occhi che sapevano vedere il dolore dietro il progresso. Non era un nostalgico, non era un passatista. Anzi: credeva nelle possibilità di riscatto offerte dagli anni Sessanta, e in questo dissenso non banale si distanziava da Pier Paolo Pasolini, anche se poi ne avrebbe rivalutato la profezia.
Per Fofi, la vera rovina non era il benessere, ma la sua trasformazione in omologazione. Quando tutti iniziano a desiderare le stesse cose, pensare allo stesso modo, ridere alle stesse battute, allora l’anima si spegne. E proprio per questo, dopo aver vissuto da protagonista la stagione dei “Quaderni piacentini”, vide nel Sessantotto più l’inizio di una deriva che una rivoluzione salvifica. Tolleranza, spirito critico, visione minoritaria: erano questi i suoi fari. Non la retorica del popolo, non il culto del partito.
Una rivista per ogni tempo
«La Terra vista dalla Luna», «Ombre Rosse», «Linea d’Ombra», «Lo Straniero», «Gli Asini». Ogni rivista creata o animata da Fofi era una sfida al tempo presente. Un tentativo di trattenere un pensiero scomodo, obliquo, inattuale. “Lo Straniero”, in particolare, è stata per anni un presidio di libertà intellettuale: vi scrivevano Leogrande, Lagioia, Saviano, quando ancora i loro nomi non erano celebri. Era un luogo per chi voleva dire cose che altrove non si potevano dire.
Anche nel campo della critica cinematografica, Fofi è stato un precursore. Prima di molti altri, vide in Totò non un semplice comico, ma un arlecchino tragico, capace di raccontare l’anima del popolo italiano con una maschera antica e modernissima. Scrisse su Sordi, su Brando, su Monicelli, sempre cercando di andare oltre la superficie, di restituire dignità intellettuale a ciò che altri liquidavano come “popolare”.
Etica del rifiuto, spiritualità della ribellione
Vegetariano, seguace di Aldo Capitini, Fofi era uno spirito profondamente etico. “Non accetto”: era questo il suo motto, non gridato ma vissuto. Non accetto il compromesso, l’abuso, l’ingiustizia, la scorciatoia. Non accetto nemmeno l’idea che non si possa cambiare il mondo. E non accetto che la cultura si riduca a intrattenimento, a salotto, a rumore. Per questo scrisse «L’oppio del popolo», un j’accuse contro lo spettacolo che divora il pensiero.
Rifiutava l’idolatria dell’individuo, vedeva nell’esaltazione dell’io una trappola per consumatori travestita da liberazione. Era affezionato a Mazzini, ai doveri prima che ai diritti. Perché senza un’etica, senza una disciplina interiore, anche la libertà può diventare un pretesto per disertare ogni responsabilità.
Una voce sempre politica, anche nel disincanto
Negli ultimi anni il suo sguardo si era fatto più severo, più pessimista. Non aveva più grandi illusioni sulla classe dirigente, né sul mondo intellettuale. Ma non si era mai chiuso nel disprezzo: aveva continuato a lavorare, a scrivere, a intervenire. Perché – diceva – “si fa sempre politica, anche quando la si rifiuta”.
La sua era una voce radicale e mite, inflessibile e piena di compassione. Oggi, che le voci libere si fanno più rare, la sua assenza pesa come un monito. Perché Fofi non era un oratore da palcoscenico: era un seminatore. E i suoi semi, anche se invisibili, hanno messo radici. Dove non c’è pubblico, ma coscienza.
Oggi, chi lo ha letto, seguito, amato, ha un compito difficile: non celebrarlo, ma continuare a disobbedire.