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Hong Kong, il rogo di Tai Po lascia 44 morti e 279 dispersi

- di: Marta Giannoni
 
Hong Kong, il rogo di Tai Po lascia 44 morti e 279 dispersi

Il complesso popolare di Wang Fuk Court trasformato in un inferno verticale: almeno 44 vittime accertate, centinaia di dispersi, un’intera comunità evacuata in fretta e furia, tre arresti per negligenza e un interrogativo che pesa su Hong Kong e sul mondo delle metropoli ad alta densità: quanto è sicuro vivere in grattacieli avvolti da impalcature di bambù e reti di plastica?

(Foto: fotomontaggio dell'incendio a Honk Kong).

Un pomeriggio qualunque che diventa una trappola di fuoco

Mercoledì 26 novembre, poco prima delle 15 ora locale, il complesso residenziale Wang Fuk Court, otto torri che dominano il distretto di Tai Po nei Nuovi Territori di Hong Kong, è diventato il teatro del peggior incendio che la città ricordi da decenni. Le prime segnalazioni parlano di fumo sulle impalcature poste attorno a uno dei palazzi per lavori di ristrutturazione, poi in pochi minuti le fiamme hanno avvolto le facciate, correndo lungo la rete verde che ricopre i ponteggi e arrampicandosi verso i piani alti.

In quelle stesse ore, gli abitanti erano in casa, molti in smart working o rientrati prima dal lavoro, famiglie con bambini e anziani, lavoratori dei cantieri. Le immagini circolate sui social mostrano finestre trasformate in cornici di fuoco, scale invase dal fumo, residenti che cercano aria fresca sui balconi mentre i vigili del fuoco aprono varchi tra le scintille.

Nel giro di poche ore l’incendio viene classificato di livello 5, il massimo previsto dal sistema di allerta dei pompieri di Hong Kong: un segnale che indica un rogo fuori scala, difficile da contenere e potenzialmente catastrofico per chiunque sia rimasto intrappolato ai piani alti.

Vittime, dispersi, feriti: la contabilità di una tragedia

Il bilancio, mentre le squadre di soccorso continuano a lavorare tra fumo e detriti, è già devastante: almeno 44 morti accertati, tra cui un vigile del fuoco, oltre 70 feriti e 279 persone dichiarate disperse, un numero che rende l’idea della portata del disastro. Molti dei feriti sono in condizioni gravissime, con ustioni estese e intossicazioni da fumo.

Quasi 900 residenti sono stati evacuati in fretta verso centri di accoglienza improvvisati nei dintorni, trasformando centri commerciali e palestre in dormitori d’emergenza. A terra, coperte termiche, materassi, sacchi a pelo raccontano l’altra faccia dell’incendio: quella di una comunità che nel giro di poche ore ha perso casa, ricordi, documenti, persino la propria identità quotidiana.

Le autorità ammettono che la cifra dei dispersi potrebbe cambiare con il procedere delle verifiche: molti residenti erano fuori casa, altri potrebbero aver trovato rifugio da amici o parenti senza riuscire a mettersi in contatto con i servizi di emergenza. Ma per centinaia di famiglie l’attesa è già diventata angoscia: in fila ai centri di raccolta, con in mano foto, nomi, numeri di telefono, chiedono notizie ai funzionari che aggiornano gli elenchi dei sopravvissuti.

“Il fuoco è sotto controllo”, ma le fiamme bruciano ancora

Nelle prime ore di giovedì 27 novembre, il capo dell’esecutivo di Hong Kong, John Lee, ha provato a rassicurare una città incollata ai notiziari e ai social. “Le fiamme sono gradualmente sotto controllo grazie all’instancabile lavoro dei vigili del fuoco”, ha dichiarato, sottolineando che il governo mobiliterà “tutte le risorse necessarie per sostenere le operazioni di soccorso e aiutare le famiglie colpite”.

Ma dietro il linguaggio misurato dei comunicati ufficiali resta un dato brutale: mentre Lee parlava, tre dei sette edifici colpiti risultavano ancora interessati da focolai, con squadre al lavoro su turni massacranti per domare gli ultimi fronti del rogo e iniziare le ricerche sistematiche appartamento per appartamento.

Al fianco di Lee, esponenti del governo locale e delle autorità centrali cinesi hanno promesso un’indagine approfondita e un sostegno economico alle famiglie delle vittime. Il presidente cinese ha chiesto uno sforzo totale per limitare ulteriori perdite di vite umane e garantire assistenza ai superstiti, segno che la tragedia ha ormai assunto una dimensione politica oltre che umanitaria.

Impalcature di bambù e rete verde: così il cantiere ha alimentato il fuoco

Il cuore della polemica, nelle prime ore dopo l’incendio, si concentra sulle condizioni in cui venivano condotti i lavori di ristrutturazione a Wang Fuk Court. Come in molti cantieri della città, le facciate erano avvolte da una fitta trama di impalcature di bambù, ricoperte da una rete di plastica verde che dovrebbe servire a trattenere detriti e polvere. In questo caso, però, quella stessa “pelle” di protezione si è trasformata in un perfetto accelerante.

Le immagini delle torri in fiamme mostrano come il fuoco abbia corso all’esterno, tra pali di bambù e teli, bypassando compartimentazioni e porte tagliafuoco, per poi entrare negli appartamenti rompendo vetri e deformando infissi. È lo scenario peggiore per chi abita ai piani alti: scale e corridoi diventano rapidamente irrespirabili, gli ascensori sono inutilizzabili e resta solo il balcone come temporaneo rifugio.

Esperti di sicurezza e sindacati dei lavoratori edili ricordano che la combinazione di bambù, plastiche e materiali isolanti infiammabili è da anni sotto osservazione, dopo diversi incidenti mortali in cantieri di Hong Kong. Nonostante una spinta alla modernizzazione, una parte significativa dei lavori continua però a essere affidata a soluzioni tradizionali, meno costose e più rapide, ma spesso meno sicure in caso di incendio.

Tre arresti per omicidio colposo e l’ombra della negligenza

La polizia ha reagito con ins unusual rapidità: nelle ore successive al disastro sono stati arrestati tre uomini legati alla società che si occupava della ristrutturazione del complesso. Secondo le prime ricostruzioni, si tratterebbe di due dirigenti e di un consulente tecnico incaricato di sovrintendere ai lavori. Tutti e tre sono sospettati di omicidio colposo per grave negligenza.

Gli inquirenti vogliono capire se siano stati utilizzati materiali non conformi o più economici rispetto a quelli prescritti, se i protocolli di sicurezza siano stati rispettati e se siano stati ignorati eventuali segnali di rischio. Al centro dell’indagine ci sono proprio le impalcature e le reti che avvolgevano gli edifici, ma anche la gestione delle vie di fuga interne e della compartimentazione antincendio.

La domanda che molti residenti e attivisti si pongono è brutale: senza quella specifica configurazione di cantiere, il rogo avrebbe potuto diventare così rapido e letale? E se la risposta dovesse essere “no”, allora la tragedia di Tai Po non sarebbe soltanto il frutto del caso, ma l’esito di una catena di scelte sbagliate, di tagli alla sicurezza, di controlli non fatti o fatti male.

La corsa disperata dei vigili del fuoco e la morte di un pompiere

Per ore, decine di squadre hanno lavorato tra fumo denso, calore estremo e rischio di crolli. Sul posto sono stati mobilitati centinaia di operatori, con almeno oltre un centinaio di mezzi antincendio e decine di ambulanze. I video ripresi dalla strada mostrano getti d’acqua che cercano di raggiungere i piani più alti, mentre i pompieri avanzano sulle scale interne con maschere e bombole d’aria compressa.

Durante le operazioni ha perso la vita un vigile del fuoco di 37 anni, rimasto intrappolato nel tentativo di raggiungere alcuni residenti ancora bloccati. “Non dimenticheremo il coraggio dei pompieri che hanno messo a rischio la propria vita per salvarne altre”, ha dichiarato John Lee, rendendo omaggio alla sua memoria e preannunciando un riconoscimento ufficiale per il suo sacrificio.

La morte di un soccorritore contribuisce a rafforzare la percezione di una gara contro il tempo combattuta in condizioni estreme, in un ambiente dove il fuoco non si sviluppa soltanto all’interno degli appartamenti, ma corre all’esterno, sui ponteggi e sulle facciate, rendendo ogni manovra più pericolosa.

Una città che ricorda Grenfell e i precedenti di Hong Kong

La mente, inevitabilmente, corre ad altri disastri urbani. Molti osservatori hanno richiamato il rogo della Grenfell Tower di Londra del 2017, dove un rivestimento esterno altamente infiammabile trasformò un incendio localizzato in una trappola mortale per decine di persone. Anche a Tai Po, sottolineano esperti e attivisti, l’elemento chiave è stato la combinazione tra rivestimenti temporanei dei cantieri e facciate dell’edificio.

Non è il primo allarme per Hong Kong. Negli ultimi anni la città ha già conosciuto incendi mortali in edifici residenziali e commerciali, con inchieste che hanno messo in luce criticità nei controlli, nella manutenzione e nella gestione degli spazi comuni. La tragedia di Wang Fuk Court arriva su questo terreno già fragile e lo fa con numeri che la collocano tra i peggiori disastri dalla fine degli anni Quaranta.

La domanda che rimbalza tra media e social è semplice e scomoda: perché, dopo tante avvisaglie, non è stato fatto di più per ridurre il rischio in complessi residenziali densamente popolati e spesso circondati da cantieri di lunga durata?

La vita nei rifugi, tra rabbia e paura del ritorno a casa

Nei centri di accoglienza allestiti alla svelta, le storie personali delineano un quadro ancora più crudo della tragedia. C’è chi ha lasciato l’appartamento in pantofole, con un solo documento in tasca, e chi è scappato per le scale stringendo per mano i figli piccoli mentre il fumo scendeva dai piani superiori.

Molti raccontano di allarmi antincendio che suonavano di continuo nei giorni precedenti per piccoli episodi e che, proprio per questo, non venivano presi sempre sul serio. Altri riferiscono di estintori difficili da trovare, di segnaletica confusa, di porte tagliafuoco tenute aperte per comodità. È un mosaico di testimonianze che, se confermato, disegna un contesto in cui la sicurezza era percepita più come un intralcio che come una priorità.

Nei rifugi c’è chi piange in silenzio, chi cerca di telefonare a parenti all’estero, chi mostra ai giornalisti i messaggi arrivati all’ultimo momento dai familiari rimasti intrappolati: una foto del fumo che invade il corridoio, una chiamata interrotta, un messaggio manoscritto lasciato sul tavolo della cucina e inviato in fretta. Anche quando le fiamme saranno definitivamente spente, questa memoria collettiva del terrore resterà incollata al nome di Wang Fuk Court.

La sicurezza dei cantieri e il modello di sviluppo urbano

La tragedia di Tai Po non riguarda soltanto un complesso residenziale, ma apre una falla nel modello di sviluppo urbano di Hong Kong e di molte altre metropoli asiatiche. Torri dense di appartamenti popolari o sovvenzionati, manutenzioni affidate a imprese esterne con margini strettissimi, impalcature di bambù che si arrampicano su decine di piani e rivestimenti provvisori di plastica: è il prezzo nascosto della città globale che cresce in altezza.

Già da tempo esperti di sicurezza chiedono una revisione profonda delle regole sui cantieri in altezza: materiali più sicuri, controlli più frequenti, piani di evacuazione aggiornati e testati con esercitazioni reali. Ma ogni riforma incontra resistenze: costa denaro, rallenta i lavori, impone vincoli a imprese e proprietari. È esattamente in quello spazio di compromesso che si insinuano il rischio e, nei casi peggiori, la tragedia.

Se le indagini confermeranno responsabilità specifiche, il rogo di Wang Fuk Court potrebbe diventare un caso di scuola, spingendo Hong Kong verso una nuova stagione di norme più severe. Ma resta il timore che, come già accaduto altrove, lo shock iniziale si dissolva rapidamente in una serie di promesse parzialmente mantenute.

Le responsabilità politiche e le domande che attendono risposta

Accanto al ruolo delle imprese di costruzione, l’attenzione si sposta inevitabilmente sul governo cittadino e sulle autorità di vigilanza. Chi ha autorizzato i materiali usati? Quante ispezioni sono state effettuate nei mesi precedenti? Quali segnalazioni erano arrivate dai condomini e dagli stessi lavoratori del cantiere? Esisteva un piano di evacuazione specifico per un complesso così densamente popolato e contemporaneamente interessato da lavori su larga scala?

Le risposte a queste domande determineranno non solo il futuro giudiziario dei singoli responsabili, ma anche la credibilità delle istituzioni. Il rischio, altrimenti, è che l’incendio di Tai Po venga archiviato come un tragico incidente inevitabile, invece che come il risultato di una catena di decisioni politiche, economiche e tecniche.

Per ora, il messaggio ufficiale insiste su unità e solidarietà: sostegno alle famiglie, fondi per la ricostruzione, promesse di riforme. Ma la popolazione, soprattutto quella che vive nei grandi complessi popolari avvolti dai cantieri, chiede qualcosa di più: la certezza che un rogo così non possa ripetersi.

Un campanello d’allarme globale

Il rogo di Wang Fuk Court non è solo una tragedia di Hong Kong. È un campanello d’allarme globale per tutte le città che puntano sulla verticalità, sulla densità abitativa e su cicli continui di ristrutturazione. Dalla sicurezza dei cantieri alla qualità dei materiali, dalla manutenzione delle vie di fuga alla formazione dei residenti, ciò che è accaduto a Tai Po parla anche a chi vive in altri continenti, in quartieri popolari circondati da impalcature.

Quando le fiamme saranno finalmente spente e i numeri di morti e dispersi diventeranno fredda statistica, resterà la domanda di fondo: quanto abbiamo imparato davvero dalle tragedie precedenti? L’incendio di Tai Po, con il suo carico di vite spezzate e di edifici anneriti, impone una risposta chiara. E la impone adesso, non al prossimo rogo.

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