Tre operai morti precipitando da un montacarichi in un cantiere edile nel cuore di Napoli, in via San Giacomo dei Capri. Pochi minuti, un vuoto nel vuoto, e tre vite spezzate mentre lavoravano alla ristrutturazione di un palazzo. Le dinamiche sono ancora oggetto di indagine, ma la scena che si è presentata agli occhi dei soccorritori racconta un’ennesima strage silenziosa, una quotidiana banalità della morte operaia. La sicurezza sul lavoro, in una città che conosce bene il peso del lavoro sommerso e delle manutenzioni affidate al risparmio, resta spesso affidata alla buona sorte. Napoli piange, ancora una volta, senza clamori, uomini che stavano semplicemente facendo il loro dovere.
Napoli, tre operai morti nel vuoto e un ragazzo accoltellato: due tragedie, una città ferita
La sociologia urbana insegna che l’emergenza, a Napoli, è una condizione strutturale. I dispositivi di sicurezza diventano optional, le responsabilità si confondono tra imprese appaltatrici e subappaltatrici, in un sistema che premia la velocità di esecuzione e penalizza la formazione, il controllo, la prevenzione. Le morti nei cantieri sono un termometro crudele dello stato di salute delle città: laddove si muore facilmente di lavoro, si vive ogni giorno sul filo del rischio. E chi lavora ai piani bassi della gerarchia sociale, come gli operai, resta troppo spesso un numero, un nome che scivola via senza che la collettività trovi il tempo di fermarsi davvero.
Adolescenti e violenza, una rabbia senza riti
Nello stesso giorno, poco distante, a Giugliano in Campania, un 15enne è stato accoltellato da un ragazzo di 18 anni, incensurato, che avrebbe reagito a una lite nata dopo una partita di calcio. Il colpo, inferto con un coltello a scatto nascosto nel marsupio, ha perforato il fegato del minorenne, ora in prognosi riservata. È l’ennesima scena di violenza urbana giovanile che scuote la provincia napoletana, un fenomeno che va letto non solo come devianza ma come sintomo di una crisi più profonda: la perdita di codici condivisi tra i giovani, l’assenza di mediazioni, la fragilità delle relazioni. In mancanza di adulti credibili e di spazi educativi stabili, anche un campo sportivo diventa luogo di scontro e sopraffazione.
La costruzione sociale della precarietà
Entrambi gli episodi, seppure diversi per natura, convergono nella rappresentazione di una società fragile, dove le reti di protezione – siano esse istituzionali, familiari o culturali – sembrano erose. Il lavoro e l’adolescenza, due snodi fondamentali per la costruzione del sé e della cittadinanza, appaiono oggi attraversati da una comune precarietà: esistenziale, relazionale, normativa. A Napoli, come in molte altre aree del Paese, il senso del limite si perde, e con esso il valore delle regole, che siano quelle del cantiere o del gioco. La mancanza di fiducia nei confronti delle istituzioni si traduce in disincanto e cinismo, in un clima che alterna fatalismo e vendetta.
La responsabilità collettiva del disincanto
È facile incolpare il singolo, puntare il dito contro l’azienda che non ha verificato il montacarichi o contro il giovane aggressore che ha usato un’arma per difendere il fratello. Ma la vera questione è sistemica. Da una parte, servono controlli reali nei luoghi di lavoro e una politica che non si limiti al cordoglio. Dall’altra, occorre ricostruire, con pazienza e costanza, un tessuto educativo che restituisca senso alla relazione tra i giovani, alla gestione della rabbia, alla percezione dell’altro come soggetto e non come nemico. La città, nel suo insieme, ha un compito di ricucitura che non può essere delegato solo alle forze dell’ordine o agli enti pubblici.
Napoli specchio d’Italia
Questi due fatti non sono semplicemente napoletani: sono italiani. Napoli è, ancora una volta, una lente d’ingrandimento di ciò che altrove resta sommerso o frammentato. La fatica di costruire sicurezza, l’impossibilità di contenere la violenza giovanile, il senso di solitudine sociale che attraversa il Paese: tutto emerge, qui, in modo più crudo, più visibile. Non serve indignarsi a tempo. Serve interrogarsi, in profondità, su cosa stiamo lasciando indietro. Perché laddove si continua a morire di lavoro e di adolescenza, la questione non è solo cronaca. È civiltà.