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Piano di pace Usa per Kiev: l’ombra russa dietro la bozza segreta

- di: Jole Rosati
 
Piano di pace Usa per Kiev: l’ombra russa dietro la bozza segreta

Una proposta in 28 punti, un testo nato a Mosca e un’Ucraina messa all’angolo.

(Foto: Steve Witkoff, businessman amico di Trump, inviato speciale statunitense per le crisi compresa la guerra in Ucraina).

Un piano in 28 punti, presentato come la grande occasione per chiudere la guerra in Ucraina, ma costruito a partire da un testo scritto a Mosca e consegnato a Washington in gran segreto. È questo il cuore dell’ultima rivelazione che scuote il fronte occidentale: il progetto di pace sostenuto dagli Stati Uniti per fermare le ostilità non sarebbe nato nei corridoi della diplomazia americana, ma da un “non paper” russo, un documento informale che fissava le condizioni desiderate dal Cremlino per mettere fine al conflitto.

La carta russa sarebbe stata trasmessa ad alti funzionari statunitensi a ottobre, subito dopo un incontro nella capitale americana tra il presidente degli Stati Uniti e Volodymyr Zelensky. Da lì, nel giro di poche settimane, quel testo non ufficiale sarebbe diventato la spina dorsale della bozza di pace in 28 punti, poi fatta filtrare alla stampa come base per un’intesa da chiudere in tempi rapidi.

Un piano cucito sulla linea del fronte russa

Nella versione iniziale, la bozza delineava un assetto che molti osservatori hanno letto come una cristallizzazione delle conquiste militari di Mosca. Il fronte sarebbe stato fissato, di fatto, sulla linea delle posizioni russe, con il riconoscimento della perdita stabile di ampie porzioni del Donbass e dell’est ucraino, accanto alla conferma di Crimea, Luhansk e Donetsk fuori dal controllo di Kiev.

Il piano interveniva anche sulla struttura dello Stato ucraino: limiti rigidi alle dimensioni delle forze armate in tempo di pace, esclusione formale dalla prospettiva di ingresso nella NATO, un sistema di garanzie di sicurezza affidato principalmente a Washington ma intrecciato con un percorso di riammissione della Russia nel consesso economico occidentale. L’architettura, nelle sue linee di fondo, sembrava pensata per congelare il conflitto sulla realtà del momento, riconoscendo a Mosca una serie di obiettivi strategici che il Cremlino non era riuscito a ottenere al tavolo negoziale nei primi mesi di guerra.

A completare il quadro, la promessa di un grande pacchetto di ricostruzione: fondi internazionali, utilizzo di risorse russe bloccate all’estero, progetti infrastrutturali, investimenti in energia, tecnologia, intelligenza artificiale. Un capitolo che, sulla carta, avrebbe dovuto rendere più digeribile per Kiev la parte territoriale del compromesso, offrendo in cambio la prospettiva di un rilancio economico accelerato.

Le pressioni su Kiev e il vincolo degli aiuti

Per l’Ucraina, la bozza non arrivava nel vuoto. Sul tavolo c’era la dipendenza cruciale dal sostegno militare e finanziario statunitense. Secondo varie ricostruzioni, la linea emersa a Washington era chiara: se Kiev avesse respinto il piano, si sarebbe aperta la possibilità di una stretta sugli aiuti. Una leva politica potente, utilizzata per spingere Zelensky verso il negoziato su basi molto meno favorevoli rispetto alle richieste pubbliche di pieno ripristino dei confini internazionalmente riconosciuti.

In questo contesto, la dimensione interna della politica americana ha pesato come un macigno. La Casa Bianca aveva interesse a presentare un risultato tangibile sul fronte ucraino, trasformando un conflitto costoso e prolungato in un accordo da rivendicare come prova di efficacia. La tempistica stretta, scandita anche da scadenze simboliche, è stata letta da molti come il tentativo di chiudere rapidamente un dossier scomodo, anche a costo di imporre a Kiev una pace amara.

Di fronte a questa pressione, da Kiev sarebbero arrivate risposte sfumate: apertura a discutere il quadro generale, ma rifiuto di assumersi la responsabilità diretta di concessioni territoriali permanenti. Più volte Zelensky ha lasciato intendere che alcuni punti, a partire dai confini, possono essere affrontati solo a livello di vertice politico e non delegati a gruppi tecnici o a intermediari.

L’ombra russa e il ruolo degli emissari

Ad alimentare i sospetti sulle vere origini del piano ha contribuito il ruolo di una ristretta cerchia di emissari e intermediari. L’iniziativa è stata cucita in gran parte fuori dai canali diplomatici tradizionali, attraverso incontri riservati con figure russe molto vicine al potere e con i consiglieri più ascoltati dal presidente americano.

In questo mosaico si inseriscono anche le telefonate trapelate tra l'inviato speciale statunitense Steve Witkoff, un businessman amico di Trump, e uno dei principali collaboratori del presidente russo. Nelle registrazioni, Witkoff appare intento a discutere con il suo interlocutore su come rendere più presentabile al presidente degli Stati Uniti un piano che prevedeva la rinuncia ucraina a territori occupati. Un dettaglio che rafforza l’impressione di un processo negoziale sbilanciato, in cui chi dovrebbe garantire Kiev sembra in realtà lavorare per far accettare alla Casa Bianca una proposta confezionata altrove.

Le stesse indiscrezioni su incontri riservati tra esponenti americani e personaggi chiave del mondo finanziario russo, con colloqui tenuti lontano dai palazzi istituzionali, hanno contribuito ad accrescere la sensazione di un negoziato parallelo, opaco e difficilmente controllabile perfino da altre componenti dell’amministrazione statunitense.

La rivolta silenziosa tra funzionari e parlamentari Usa

All’interno delle strutture americane il piano non ha raccolto consenso unanime. Diversi funzionari di alto livello avrebbero bollato il testo come eccessivamente sbilanciato sulle richieste russe, giudicandolo inaccettabile per Kiev e potenzialmente destabilizzante per l’intero equilibrio europeo.

Una parte del Congresso, sia tra i repubblicani sia tra i democratici, si è mossa in modo trasversale, chiedendo chiarimenti sulla genesi della bozza e sul peso effettivo del documento russo nelle scelte della Casa Bianca. In riunioni riservate, alcuni membri chiave delle commissioni Esteri e Difesa avrebbero chiesto al dipartimento di Stato di rimettere mano al testo, sottolineando il rischio di passare alla storia come coloro che hanno avallato una spartizione di fatto dell’Ucraina.

Il risultato è stato un progressivo ripensamento della posizione ufficiale: da “piano di pace da firmare in tempi stretti” la bozza si è trasformata in “documento di lavoro da rivedere con Kiev e con i partner europei”. Un cambio lessicale che racconta una vera e propria retromarcia politica.

Dal 28 ai 19 (e oltre): la bozza cambia volto

Sotto la pressione combinata di Kiev, di una parte dell’establishment americano e dei principali governi europei, il piano è stato rapidamente rimaneggiato. In una nuova versione, ridotta a circa 19 punti, sarebbero stati limati o eliminati alcuni passaggi più controversi: via i tetti rigidi alle dimensioni delle forze armate ucraine, ammorbidita la parte sulle prospettive euro-atlantiche, riformulato il linguaggio sulle concessioni territoriali.

Resta però la sostanza di un impianto che, almeno per ora, non restituisce all’Ucraina i confini precedenti all’invasione. Il nodo vero è tutto qui: costruire una pace che sancisce un arretramento permanente dello Stato aggredito, a fronte di garanzie su carta e di un pacchetto economico che potrebbe richiedere anni prima di tradursi in realtà.

Su questi punti la distanza tra Kiev e alcune capitali europee da un lato, e l’impostazione americana dall’altro, appare ancora significativa. L’Unione europea insiste sulla necessità di evitare qualsiasi impressione di “taglio” di un Paese sovrano, consapevole che il precedente ucraino farebbe scuola per l’intero continente.

L’Europa tra paura del precedente e timore dell’abbandono

Per l’Europa il dossier ucraino non è solo una questione di solidarietà con un Paese aggredito, ma un test esistenziale. Una pace firmata alle condizioni di fatto dettate da Mosca, anche se confezionata in un linguaggio più neutro, rischia di aprire la strada a nuove revisioni dei confini in altre aree critiche del continente. Non è un caso che molte capitali europee abbiano espresso, sia pure con toni diplomatici, forti perplessità sulla bozza originaria.

Al tempo stesso, però, nessuno può ignorare un altro fattore: il rischio che un’America stanca della guerra e concentrata su altre priorità geopolitiche scelga un disimpegno graduale, lasciando l’Europa a gestire da sola il dopo-conflitto. Da qui la linea sottile che molti governi stanno cercando di percorrere: evitare una pace che appaia come una resa, ma non arrivare allo scontro frontale con Washington.

In pubblico, la narrativa resta quella della “pace giusta” e del rispetto della sovranità ucraina. In privato, la domanda che serpeggia nelle cancellerie è un’altra: quanto a lungo sarà ancora possibile sostenere la guerra se gli Stati Uniti spingeranno in modo sempre più pressante per una soluzione negoziata al ribasso?

Zelensky tra resistenza e diplomazia di sopravvivenza

Per il presidente ucraino, la vicenda del piano in 28 punti è l’ennesimo equilibrio impossibile. Da un lato, la necessità di non rompere con il principale alleato militare e finanziario, senza il quale la resistenza sul campo diventerebbe insostenibile. Dall’altro, l’impossibilità di presentarsi all’opinione pubblica interna con un accordo che sancisca nero su bianco la perdita di territori e un ridimensionamento strategico permanente.

In più occasioni, il leader ucraino ha ribadito che qualsiasi intesa dovrà rispettare “l’integrità territoriale e la dignità del Paese”. Ma la distanza tra queste parole e la geometria del piano discusso dietro le quinte resta evidente. Le indiscrezioni sui testi, sulle pressioni e sui colloqui filtrati hanno già alimentato tensioni interne e preoccupazioni tra i partner dell’Ucraina più esposti, a partire dai Paesi dell’est europeo.

Nei prossimi mesi, l’inquilino di Kiev sarà costretto a muoversi su un crinale strettissimo: concedere abbastanza da mantenere aperto il canale con Washington, ma non al punto da rendere politicamente suicida la firma di un accordo percepito come una capitolazione mascherata.

Pace, tregua o congelamento? Gli scenari aperti

L’emersione dell’ombra russa dietro il piano americano non chiude la partita, ma la rende più complessa. Tre gli scenari principali.

Il primo è quello di una pace negoziata su una versione ulteriormente emendata della bozza: meno vantaggi espliciti per Mosca, più garanzie giuridiche e militari per Kiev, un ruolo più visibile dell’Europa nella costruzione del pacchetto economico e nella sorveglianza dell’accordo. Sarebbe la soluzione preferita da chi, nelle cancellerie occidentali, punta a chiudere il conflitto con un compromesso comunque stabile.

Il secondo è quello di una tregua lunga e ambigua: nessun trattato formale, ma un progressivo rallentamento delle ostilità, una linea del fronte che di fatto diventa confine, una normalizzazione graduale dei rapporti economici con la Russia senza un atto conclusivo. Uno scenario che congelerebbe il conflitto ma lascerebbe aperta la porta a nuove esplosioni di violenza.

Il terzo è il più rischioso: il fallimento totale del negoziato. Se Kiev dovesse respingere apertamente il piano, e se Washington dovesse reagire riducendo gli aiuti, il conflitto potrebbe entrare in una fase diversa, con un’Ucraina più fragile sul piano militare e una Russia tentata di sfruttare la finestra di debolezza per consolidare ulteriormente i propri vantaggi.

L’ultima domanda: chi scrive davvero la pace?

Al di là dei dettagli tecnici, la vicenda del piano in 28 punti solleva un interrogativo di fondo: chi ha il diritto di scrivere la pace in Ucraina? Se l’ossatura dell’intesa nasce da un documento elaborato a Mosca e rielaborato a Washington, qual è lo spazio reale di scelta di Kiev? E che cosa significa, per l’Europa, accettare un processo in cui il destino di un Paese candidato all’ingresso nell’Unione viene negoziato in gran parte altrove?

È questo il nodo politico che resterà sul tavolo anche quando l’ennesima bozza sarà corretta, limata, ribattezzata. La pace non è solo la fine dei combattimenti, ma la definizione di un ordine. Se quell’ordine viene modellato intorno alle richieste dell’aggressore, e imposto a chi ha pagato il prezzo più alto, il rischio è che il conflitto non finisca davvero: semplicemente, cambi forma, lasciando al futuro una eredità di ingiustizie pronte a riaccendersi.

In gioco non c’è solo il destino dell’Ucraina, ma la credibilità stessa dell’Occidente quando parla di regole internazionali, confini inviolabili e diritto dei popoli a scegliere il proprio futuro. Ed è per questo che l’ombra russa dietro la bozza segreta non è un dettaglio tecnico, ma il vero banco di prova della politica di pace proclamata nelle capitali occidentali.

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