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Roma, 16 ottobre 1943: la città tradita e il dolore che non passa

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Roma, 16 ottobre 1943: la città tradita e il dolore che non passa

Ottantadue anni dopo, Roma si ferma ancora. Non per cerimonia, ma per necessità morale. Perché quella mattina del 16 ottobre 1943, all’alba, la città eterna mostrò un volto che non avrebbe mai voluto avere: quello dell’indifferenza.

Roma, 16 ottobre 1943: la città tradita e il dolore che non passa

I camion tedeschi entrarono nel Ghetto e cominciarono il rastrellamento. Mille ebrei romani — uomini, donne, bambini — vennero trascinati via dalle loro case, ammassati sui mezzi e portati alla stazione Tiburtina. Lì, in silenzio, li attendeva il convoglio diretto ad Auschwitz-Birkenau. Da quel viaggio di tre giorni tornarono solo sedici persone.

Era un sabato, e Roma guardava. Qualcuno con pietà, molti con paura, troppi in silenzio. Lo Stato italiano, quello della Repubblica Sociale che pochi giorni prima si era messo al servizio dell’occupante nazista, aveva già collaborato alla deportazione, fornendo elenchi e complicità. Il 16 ottobre non fu un fulmine, ma la conseguenza di anni di leggi razziali, di discriminazioni diventate abitudine.

Un crimine contro cittadini romani
Stamattina, nel cuore del Portico d’Ottavia, il sindaco Roberto Gualtieri ha parlato di “una giornata di crimine contro cittadini romani rastrellati soltanto perché ebrei, portati via a morire con una ferocia e una pianificazione agghiacciante”. Parole sobrie, ma necessarie.
Perché il rastrellamento del Ghetto non fu solo una tragedia ebraica: fu una ferita inferta al corpo della città, ai suoi stessi cittadini, traditi da chi avrebbe dovuto proteggerli.

Roma, capitale del mondo, si risvegliò allora come città spenta e occupata, incapace di gridare. È questo il nodo della memoria: non solo ricordare le vittime, ma interrogarsi su chi restò. Su chi tacque, su chi si voltò, su chi collaborò.

La memoria come resistenza civile
Da decenni, ogni 16 ottobre, la città si ritrova. Non per retorica, ma perché la memoria, a Roma, è iscritta nelle pietre, nei nomi sulle targhe, negli occhi di chi è rimasto. Ogni anno, davanti alle pietre d’inciampo, si rinnova una promessa semplice e solenne: non dimenticare.

Ma ricordare non basta se non si guarda il presente. L’antisemitismo non è un relitto del passato: muta linguaggio, assume forme nuove, si traveste da sarcasmo o da rabbia ideologica. Lo si vede nei social, nei cori da stadio, nelle scritte sui muri. È un veleno che non muore, e che la memoria da sola non può neutralizzare se non si accompagna alla responsabilità civile.

Il dovere di non dimenticare
Oggi, a ottantadue anni di distanza, la voce della città torna al silenzio di allora, ma con un significato diverso: non più paura, ma raccoglimento. Roma porta il peso della sua storia e lo trasforma in ammonimento.
Il Portico d’Ottavia è ancora lì, con le sue pietre antiche e i fiori deposti ogni anno. È un luogo che non parla solo di dolore, ma di coscienza.

Perché il rastrellamento del 16 ottobre 1943 non appartiene solo agli ebrei romani, ma a tutti gli italiani. È il punto in cui la civiltà si incrinò, e da cui il Paese dovette ripartire per ritrovare se stesso.

Gualtieri lo ha ricordato con una frase semplice: “Abbiamo il dovere di non dimenticare mai a cosa può portare l’abisso del genere umano.”
Un dovere che Roma, oggi, onora nel modo più dignitoso possibile: senza retorica, ma con la memoria viva di ciò che fu e non deve più essere.

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