Sono passati 44 anni. Era il 10 giugno 1981 quando l’Italia smise di respirare. Il Paese, intero, sembrò fermarsi. Un bambino di sei anni, Alfredo Rampi, detto Alfredino, cadde in un pozzo artesiano a Vermicino, nei dintorni di Frascati. Da quel momento, l’Italia intera entrò in apnea. Le sue grida, la sua voce flebile, le immagini in diretta divennero l’ossessione di un’intera nazione. Per la prima volta nella nostra storia, il dolore privato di una famiglia si trasformò in uno spettacolo collettivo, in un evento mediatico senza precedenti. Sessanta ore di attesa, di speranza, di angoscia trasmesse dalla Rai a milioni di italiani incollati davanti al televisore.
44 anni fa la tragedia di Vermicino: il piccolo Alfredo Rampi cadde in un pozzo e l’Italia si fermò
Era vivo, e parlava. Parlava con i soccorritori, con il padre, con chi stava sopra quel buco maledetto. La voce di Alfredo usciva da quel pozzo come un respiro interrotto, un sussurro che attraversava l’Italia, casa per casa, cuore per cuore. Si cercava un modo per tirarlo fuori: speleologi, volontari, corde, carrucole. Ma niente funzionava. Intanto la televisione pubblica portava nelle case il pianto, il dolore, la voce del bambino. Nessuna mediazione, nessun filtro. Era tutto reale, e tutto tragico. Quell’Italia che fino al giorno prima non conosceva Vermicino, ora ne sapeva ogni centimetro.
La macchina dell’angoscia
Quella di Vermicino non fu solo una tragedia. Fu anche il primo cortocircuito tra pietà e spettacolo. I soccorsi si rivelarono inadeguati, l’organizzazione approssimativa, la tensione alle stelle. Si scavava nel panico, tra le urla e le dirette. Le telecamere diventavano testimoni invadenti, i cronisti volti familiari, i telespettatori una comunità emotiva nazionale. Anche il presidente Pertini arrivò sul posto, simbolo della Repubblica che si piega al dolore di una famiglia. Ma l’Italia non fu capace di salvarlo. Era troppo profondo, troppo stretto quel pozzo, troppo complesso il salvataggio. L’Italia scopriva, in diretta, di essere vulnerabile.
Da tragedia a spettacolo nazionale
Sessanta ore di diretta furono più che un racconto. Furono un’esperienza collettiva. Non si era mai visto niente del genere: bambini tenuti svegli fino a notte fonda, bar con la tv accesa 24 ore su 24, lacrime condivise. Si era smarrito il confine tra realtà e rappresentazione, tra dolore autentico e consumo emotivo. Era nata la televisione dell’anima scoperta, del pathos trasmesso senza tregua. E Vermicino divenne non solo un luogo fisico, ma uno spazio simbolico, il punto in cui l’Italia perse la propria innocenza televisiva.
Quando la morte diventò collettiva
Il 13 giugno 1981 arrivò la notizia: Alfredo era morto. Da ore, forse da giorni. Nessuno lo voleva credere, eppure lo sapevamo già. L’Italia pianse, davvero. Non come gesto simbolico, ma come corpo unico trafitto. Non era solo il lutto per un bambino: era la scoperta di un limite. Il limite della tecnica, dell’informazione, dell’empatia, del potere. Vermicino divenne una ferita. Aperta. E ancora oggi, a 44 anni di distanza, se ne parla con lo stesso nodo in gola.
La memoria di un bambino che siamo stati
Alfredo Rampi non è stato solo un bambino sfortunato. È stato l’involontario simbolo di un’Italia che si scopriva fragile e compassionevole. Il pozzo di Vermicino non è solo il luogo della tragedia, ma il punto in cui un Paese intero si è visto riflesso: impotente, commosso, unito. Oggi, a 44 anni di distanza, quel pozzo continua a parlarci. Ci racconta chi eravamo. E ci chiede chi siamo diventati.