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Trump ricatta il Messico sull'acqua: la dottrina Monroe 2.0

- di: Vittorio Massi
 
Trump ricatta il Messico sull'acqua: la dottrina Monroe 2.0
Trump ricatta il Messico sull'acqua: la dottrina Monroe 2.0
Dazi, siccità e geopolitica: come una disputa idrica riaccende l’ossessione americana per il controllo sul Sud del continente.

Donald Trump alza di nuovo il volume contro il vicino del Sud. Con un annuncio affidato al suo social network, ha minacciato un dazio aggiuntivo del 5% sulle importazioni dal Messico se Città del Messico non rilascerà “immediatamente” oltre 800.000 ettometri cubi di acqua (circa 800.000 acre-feet) che, secondo Washington, sarebbero dovuti in base a un trattato del 1944.

Il caso nasce come controversia tecnica su flussi idrici nel bacino del Rio Grande. Ma, nella narrazione politica trumpiana, diventa qualcosa di molto più grande: un test di forza con il Messico, un monito all’intera America Latina, un’eco aggiornata della dottrina Monroe, con le leve del XXI secolo – tariffe, mercati, catene del valore – al posto delle cannonere.

Il trattato del 1944 e il “debito d’acqua” del Messico

Alle spalle dello scontro c’è il trattato del 1944 sulla ripartizione delle acque tra Stati Uniti e Messico. L’intesa stabilisce che Washington garantisca ogni anno a Città del Messico circa 1,5 milioni di acre-feet dal Colorado, mentre il Messico deve consegnare agli USA 1,75 milioni di acre-feet di acqua del Rio Grande in cicli di cinque anni.

Il ciclo 2020-2025, terminato nell’ottobre scorso, si è chiuso con una consegna messicana stimata in meno della metà del volume dovuto, secondo fonti diplomatiche e analisi tecniche. Da qui nasce la cifra evocata da Trump: gli 800.000 acre-feet che mancherebbero all’appello e che, a suo dire, starebbero affossando le colture e gli allevamenti del Texas.

Già da mesi il governo statunitense denuncia una “crisi idrica” nella Lower Rio Grande Valley: senza l’acqua di trattato, le autorità texane sono costrette a ridurre pesantemente le allocazioni dai grandi serbatoi condivisi di Amistad e Falcon, con tagli ai diritti d’uso per agricoltori e comunità di frontiera.

Trump: “Il Messico viola il trattato e danneggia i nostri agricoltori”

Nel suo messaggio Trump accusa il Messico di “continuare a violare il trattato completo sull’acqua” e di danneggiare “le nostre belle colture e il bestiame del Texas”. Chiede che almeno 200.000 ettometri cubi siano rilasciati entro il 31 dicembre e minaccia il dazio del 5% se ciò non avverrà “immediatamente”.

Non è il primo ultimatum: già nell’aprile 2025 la Casa Bianca aveva ventilato sanzioni e nuovi dazi contro il Messico per il mancato rispetto del trattato, accusando Città del Messico di “rubare l’acqua agli agricoltori texani”. Da allora Washington ha cominciato a usare in modo sistematico le leve economiche: congelamento di fondi di cooperazione e progetti di sviluppo, pressioni sui canali multilaterali, fino alla nuova minaccia di tariffa generalizzata.

Sul fronte interno, Trump prova a compensare la rabbia rurale con un pacchetto di aiuti da 12 miliardi di dollari a sostegno degli agricoltori, finanziato attraverso la Commodity Credit Corporation, con la gran parte delle risorse destinata ai produttori di mais, soia, cotone e carne, e una quota riservata alle colture “specialty” e allo zucchero. Il gesto parla al suo elettorato più fedele: la base agricola degli Stati del Midwest e del Sud.

Il Messico tra siccità strutturale e pressione politica

Nella versione messicana della storia, il quadro cambia tono. Il governo guidato da Claudia Sheinbaum sostiene di aver rispettato il trattato “per quanto l’acqua disponibile lo consente”, richiamando una siccità pluriennale che stringe il Nord del Paese e l’intero bacino del Rio Grande, esasperata dai fenomeni estremi legati al cambiamento climatico.

Dopo un’intensa fase negoziale, a fine aprile 2025 il Messico aveva promesso un incremento delle consegne d’acqua verso il Texas per ridurre il deficit, accordo confermato dal Dipartimento dell’Agricoltura statunitense. Ma la combinazione di riserve ai minimi storici, conflitti interni sull’uso dell’acqua e pressioni dei governi locali ha reso difficile trasformare gli impegni in flussi costanti.

Nel frattempo, la crisi idrica è esplosa anche sul fronte sociale. Nelle scorse settimane, migliaia di agricoltori messicani sono scesi in piazza davanti alla Camera dei Deputati a Città del Messico per denunciare la carenza d’acqua per i loro campi e contestare le priorità del governo nel rispetto degli obblighi internazionali. Tra le richieste: garanzie per l’irrigazione interna prima di cedere ulteriori volumi al vicino del Nord.

Texas, la rabbia dei campi e la chiusura dell’ultima raffineria di zucchero

Se il Messico invoca la siccità, il Texas mette sul tavolo la lista delle vittime economiche. Il deficit d’acqua nel bacino del Rio Grande è stato indicato come uno dei fattori – insieme ai prezzi e alla concorrenza globale – che hanno portato alla chiusura dell’ultima raffineria di zucchero dello Stato, con la perdita di centinaia di posti di lavoro in una regione già fragile.

Associazioni agricole e rappresentanti politici texani, repubblicani e democratici, chiedono da tempo alla Casa Bianca di “far pagare” il Messico per le mancate consegne, invocando misure punitive che spaziano dalla condizionalità sui fondi di cooperazione ai dazi sugli scambi transfrontalieri di prodotti agricoli.

In questo contesto, la minaccia di Trump di usare una tariffa-orologio – un 5% pronto a scattare e potenzialmente aumentabile – diventa anche una risposta al malcontento interno, oltre che un messaggio diretto al governo messicano.

Dazi come arma geopolitica: dall’orto texano all’intero continente

Una tariffa del 5% su tutti – o su una larga parte – dei flussi commerciali in arrivo dal Messico non sarebbe un dettaglio tecnico. Gli scambi bilaterali superano i 700 miliardi di dollari l’anno, grazie anche al quadro normativo dell’accordo USMCA che ha rimpiazzato il NAFTA. Colpire il partner principale della catena di fornitura nordamericana significa mandare un segnale a tutta la regione.

Per i critici, il messaggio è chiaro: la Casa Bianca è pronta a usare ogni strumento economico – dai dazi alle minacce di sanzioni, fino al congelamento di fondi e progetti – per imporre ai Paesi latinoamericani una linea coerente con gli interessi strategici statunitensi. Il lessico è nuovo, ma la logica ricorda da vicino quella di un vecchio pilastro della politica USA.

Il ritorno della logica della dottrina Monroe

Nel 1823 il presidente James Monroe proclamò che il continente americano doveva costituire una sfera separata, sottratta alle ingerenze delle potenze europee. Ogni intervento nel “cortile di casa” dell’Occidente sarebbe stato considerato un atto ostile verso Washington.

Nel corso del XX secolo, quella dottrina si trasformò in cornice per una lunga sequenza di interventi politici, economici e militari in America Latina: colpi di Stato appoggiati o benedetti dagli Stati Uniti, operazioni clandestine, blocchi commerciali, condizionamento di prestiti e aiuti. La forma cambiava, il principio no: nessun Paese del continente doveva sfuggire all’orbita di Washington.

Oggi lo scenario è diverso. Non servono più navi da guerra e marines: bastano dazi, accesso al mercato, regole sugli investimenti, forniture di tecnologia e armi. È su questo terreno che diversi analisti latinoamericani leggono il braccio di ferro sull’acqua tra USA e Messico come un episodio di “Monroe 2.0”: l’uso della dipendenza economica e commerciale come leva per riportare all’ordine un partner recalcitrante.

Una crisi d’acqua che è anche una crisi climatica

Al di là della contesa giuridica, resta un dato strutturale: il bacino del Rio Grande – come quello del Colorado – è uno dei più stressati del Nord America. Anni di siccità estrema, aumento delle temperature, crescita della domanda urbana e agricola hanno reso sempre più difficile rispettare gli impegni del trattato del 1944.

Studi e rapporti indicano che il Messico ha cominciato a “saltare” le scadenze di consegna già dagli anni Novanta, accumulando debiti d’acqua poi rinegoziati di ciclo in ciclo. L’attuale crisi è dunque l’ennesima manifestazione di una tensione di lungo periodo, resa più esplosiva dal cambio climatico e dall’iper-politicizzazione dei rapporti tra Washington e Città del Messico.

In assenza di una riforma profonda della governance idrica e di investimenti comuni in efficienza e adattamento, ogni nuovo periodo di siccità rischia di trasformarsi in contenzioso diplomatico e, come mostra il caso Trump, in arma di scontro commerciale.

Chi paga il prezzo: comunità di frontiera e piccoli produttori

Intanto, il conto lo pagano i soggetti con meno potere negoziale: i piccoli agricoltori, le comunità di frontiera, i lavoratori stagionali che attraversano ogni giorno la linea del Rio Grande. Da un lato, irrigazioni razionate, raccolti ridotti e chiusure di impianti industriali; dall’altro, aumento dei prezzi dei generi alimentari e nuova incertezza sulle regole del gioco commerciale.

Anche in Messico, la prospettiva di dover aumentare le consegne d’acqua verso Nord alimenta la paura di tagli ulteriori alle disponibilità interne, soprattutto nelle aree rurali del Nord e del Centro già colpite dalla scarsità idrica. Di qui le mobilitazioni contadine e l’irritazione dei governatori locali, che accusano il governo federale di sacrificare le esigenze domestiche sull’altare del trattato.

Un conflitto da secolo scorso in un mondo che cambia

Nel 2025, trasformare un conflitto d’acqua in guerra di dazi tra due tra i maggiori partner commerciali del mondo appare come la riproposizione di uno schema del secolo scorso in un contesto radicalmente nuovo. Le catene del valore sono integrate, le crisi climatiche non conoscono confini, la vulnerabilità dei territori colpiti da siccità e alluvioni è condivisa.

La scelta tra negoziato e ricatto economico non riguarda solo il rapporto USA-Messico. È un messaggio che rimbalza a sud dell’istmo di Panama, dove governi e opinioni pubbliche osservano con attenzione come Washington usa, o minaccia di usare, gli strumenti economici per difendere i propri interessi strategici.

La crisi attuale mostra che l’acqua è ormai al centro della geopolitica del continente. La domanda, a questo punto, è se prevarrà la logica della cooperazione – adattando il trattato del 1944 al mondo del XXI secolo – oppure quella di una nuova dottrina di dominio, aggiornata alla stagione dei dazi e delle catene globali del valore.

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