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L’appello ai liberi e forti di Don Sturzo

- di: Giuseppe Ignesti
 
L’appello ai liberi e forti di Don Sturzo

Cento anni or sono, il 18 gennaio 1919, nasce a Roma il Partito popolare italiano, nella vita politica della Penisola il secondo partito organizzato di massa, accanto al partito socialista. Come scrisse Federico Chabod, il grande storico italiano del Novecento, “un partito che vuol essere tale e non soltanto un’assemblea di deputati. […] Suo animatore è un prete siciliano, don Luigi Sturzo, uomo di grande valore. Che cosa rappresenta il nuovo partito? Per certi aspetti, esso costituisce un fatto di estrema importanza, l’avvenimento più notevole della storia italiana del XX secolo, specie in rapporto al secolo precedente: il ritorno ufficiale, massiccio, dei cattolici nella vita politica italiana. È difficile per chi non sia italiano rendersi conto di ciò che rappresenta questo fatto. Basti pensare che dopo la formazione del regno d’Italia, la parola d’ordine dei cattolici era stata: nessuna collaborazione col nuovo regime. Né eletti né elettori. In realtà, non si può affermare che tutti i cattolici si siano astenuti dal voto. Ma in pratica questo aveva significato, sino alla fine del XIX secolo, il distacco ufficiale del cattolicesimo italiano dalla vita dello Stato. […] Ma soltanto nel 1919, con la costituzione e l’organizzazione del partito popolare, i cattolici si presentano nella vita politica italiana come massa compatta e organizzata, e forniti di un proprio ben definito programma”. Chabod metteva così in luce proprio il carattere fondamentale di tale novità, quel carattere chiaramente voluto da Sturzo e già illustrato nella sua Caltagirone in un discorso del dicembre 1905, quando aveva affermato: “stimo che sia giunto il momento […] che i cattolici [...] si mettano al paro degli altri partiti nella vita nazionale […] come rappresentanti di una tendenza popolare nazionale nello sviluppo del vivere civile” e che tale presenza di partito si manifesti “con un programma consono, iniziale, concreto e basato sopra elementi di vita democratica: così ci conviene entrare nella vita politica”.  Nacque così in Sturzo il grande manifesto programmatico che egli illustrò ai suoi concittadini nella - già citata storica - conferenza tenuta durante le vacanze di Natale del 1905. Tale conferenza, che da allora prese il nome di “discorso di Caltagirone”, segna una vera e propria svolta nel pensiero di Luigi Sturzo, il quale formulò chiaramente per la prima volta la necessità di giungere alla formazione di un partito politico con il concorso del laicato cattolico democratico, un partito fondato su un programma di riforme laicamente concepito, con il fine di concorrere alla vita politica parlamentare “al pari” delle altre formazioni partitiche già presenti in Italia.  Si può anche affermare che quando nel gennaio del 1919 i due documenti, il testo dell’Appello per l’adesione al Partito popolare e quello dell’annesso Programma, vennero resi pubblici, entrambi rappresentavano, in grande ed efficace sintesi, sia il compendio delle più significative esperienze culturali che si erano svolte in poco più di un secolo di storia del cattolicesimo italiano sia quello delle varie vicende associative dallo stesso cattolicesimo vissute nell’ultimo trentennio, tutte filtrate e mirabilmente riassunte da una mente politica di alto sentire, quella di Luigi Sturzo. Centro di tutto il documento e con esso dell’annesso Programma è il disegno, concepito essenzialmente dal solo Sturzo, di voler procedere alla riforma costituzionale dello Stato: uno Stato, che si dichiara apertamente di voler modificare rispetto a quello lasciato in eredità dal Risorgimento nazionale nel corso dell’Ottocento e di trasformarlo in uno Stato veramente popolare, cioè aperto alla partecipazione di tutta la società italiana; uno Stato, che sia ricondotto “entro i limiti della sua attività”, rispettando tutta intera la vita della società civile in condizione di piena libertà e in tutte le sue forme e potenzialità naturali: la famiglia, le classi, i comuni, le regioni, il lavoro e la scuola; uno Stato, dunque, che riconosca e tuteli la personalità individuale e incoraggi le iniziative private.
Tale vasto programma di riforme istituzionali deve essere però alimentato e ispirato da un “vero senso di libertà rispondente alla maturità civile del nostro popolo e al più alto sviluppo delle sue energie”: libertà religiosa, d’insegnamento, delle organizzazioni di classe, comunale e locale. Libertà, dunque, e maturità, ritornano come binomio indissolubile, come il richiamo ai liberi e forti, cioè ai socialmente evoluti, ai maturi, ai responsabili.

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