Valeva la pena sfidare il virus per una vittoria sportiva?

- di: Diego Minuti
 
Le pulsioni possono essere compresse, limitate, ma non possono essere cancellate, e quindi le manifestazioni di gioia sfrenata dopo la vittoria dell'Italia agli europei di calcio sono comprensibili.
Non tanto perché si festeggiava una vittoria inattesa e giunta alla fine di un torneo che ha compattato (quasi) tutto il Paese attorno agli azzurri, quanto perché è stato anche un modo di cercare di mettersi alle spalle un periodo buio, dal quale, però, non siamo ancora usciti.

Non vogliamo fare la morale, magari cadendo nella tentazione di dire che s'è persa la testa, che dovevamo - come italiani - festeggiare, ma con moderazione, quasi che non conoscessimo la passione che si accende ogni qual volta la nazionale scende in campo, dalla finale di un torneo importante all'ultima delle amichevoli.
Siamo fatti così, verrebbe da dire, e quindi rientriamo in quella categoria in cui si rifugiano coloro che non amano cercare alternative al ''prendere o lasciare''. Ma quanto è accaduto, dalle Alpi in giù, merita qualche considerazione perché l'amore verso i colori azzurri non può cancellare lo sbigottimento nel vedere migliaia di persone giustamente festanti, ma una incollata all'altra, con pochissimi - quando c'erano - accorgimenti per evitare il pericolo di trasmissione del contagio.

Ragazzi e ragazze, uomini e donne, giovani e anziani, tutti ad abbracciarsi, a urlare, anche a piangere, nel nome del Dio Pallone che, dall'alto dei cieli, per la prima volta da quindici anni a questa parte ha rivolto il suo benevolo sguardo alle italiche legioni di tifosi.
Ma tutto questo, non neghiamolo, avrà un prezzo, piccolo o grande, non importa, ma lo avrà e bisognerà fare appello a tutte le risorse giustificative per fermare l'orrore espresso dagli scienziati nel vedere che tutte le raccomandazioni che ci sono state rivolte in queste lunghi mesi di pandemia siano state dimenticate, sia pure per poche ore.
Ma quanto è accaduto si porterà dietro, come forse è normale, delle polemiche perché ha fatto riesplodere le proteste di molti esercenti che, vedendo le scene che ritraevano migliaia di persone accalcarsi nelle piazze o lungo il tragitto percorso dal pullman scoperto sul quale gli azzurri hanno attraversato le strade del centro di Roma, si sono chiesti che senso abbia imporre ancora loro dei divieti sugli accessi ai locali.

Perché, non si può non ammetterlo, appare un controsenso che quello che sino a ieri era vietato sia stato cancellato, sia pure per poche ore, per una vittoria sportiva. Il virus, a meno di esserci persa qualche dotta disquisizione di un virologo, non fa eccezioni a seconda della motivazione di un assembramento. La speranza che dobbiamo nutrire è che la campagna vaccinale, che sta andando avanti non con la velocità che tutti ci aspettavamo, elevi una barriera ai contagi e che, quindi, il Paese non abbia a pagare un prezzo troppo elevato per una vittoria calcistica. Ma il problema dell'evidente discrasia tra quello che è stato concesso (sarebbe, in proposito, grave se fosse vera la ricostruzione di oggi di alcuni quotidiani, secondo i quali qualche azzurro di peso avrebbe minacciato non si sa cosa se non fosse stata concessa la parata sul bus scoperto) e quello che invece è quotidianamente vietato non può essere risolta con l'affermazione che era una vittoria attesa da troppo tempo. Una giustificazione che poteva valere in altre epoche in cui un infido virus non ha provocato la morte di centinaia di migliaia di italiani, tra indicibili sofferenze.
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