(Foto: una casa abusiva).
In Italia l’ombra dell’abusivismo edilizio continua a stendersi sulle nuove costruzioni. Secondo gli ultimi indicatori sul benessere e sulla qualità dello sviluppo relativi al 2022, per ogni cento nuove abitazioni realizzate se ne contano circa quindici prive delle autorizzazioni necessarie o comunque irregolari. Un dato che non fotografa neppure l’intero patrimonio illegale accumulato nei decenni, ma che basta da solo a raccontare quanto il problema sia ancora strutturale.
Gli analisti sottolineano che questo valore è sostanzialmente stabile rispetto agli anni precedenti: non c’è una vera inversione di tendenza, ma piuttosto la conferma di un “male antico”, frutto di una lunga stagione di speculazione e di tolleranza, che ha devastato coste, campagne e periferie urbane sin dal dopoguerra.
Un’Italia divisa in tre: Nord virtuoso, Centro incerto, Sud sotto assedio
Il dato medio nazionale nasconde fortissime differenze territoriali. Nel Nord Italia l’incidenza dell’edilizia fuori regola è relativamente contenuta: si stimano circa 4,5-5 abitazioni abusive ogni 100 nuove case. Qui i controlli sono in genere più serrati, la pressione sociale contro gli eccessi del cemento è più forte e le amministrazioni dispongono di uffici tecnici meglio strutturati.
Nel Centro si sale intorno a 15 abitazioni abusive ogni 100, in linea con la media nazionale ma con forti oscillazioni tra le diverse regioni e le aree interne. Il salto vero, però, è nel Mezzogiorno: al Sud la quota stimata di nuove costruzioni fuori legge arriva al 40%, quasi una su due.
In alcune regioni meridionali si superano addirittura le 50 case irregolari ogni 100. In territori dove il dissesto idrogeologico è cronico e le urbanizzazioni spontanee si addossano a fiumi, versanti franosi o litorali fragili, l’abusivismo non è solo una violazione amministrativa: diventa una questione di sicurezza collettiva.
L’onda lunga dei condoni e la “speranza” di un nuovo perdono
Per capire la radice del fenomeno bisogna tornare ai grandi condoni edilizi nazionali varati negli anni Ottanta, Novanta e nei primi Duemila. Tre provvedimenti che hanno alimentato l’idea che, prima o poi, una sanatoria arrivi sempre. Molti tecnici e urbanisti parlano di una “aspettativa di condono permanente”: chi costruisce senza permessi non teme tanto la repressione, quanto la possibilità, un domani, di regolarizzare tutto pagando una somma spesso inferiore al vantaggio ottenuto.
È in questo scenario che si inserisce la proposta, rilanciata di recente a livello politico, di introdurre un meccanismo di silenzio assenso per le vecchie pratiche di condono rimaste congelate negli uffici comunali. L’idea è semplice: se l’ente locale non risponde entro sei mesi alle domande presentate negli anni passati, la richiesta si considera accolta.
In altre parole, l’inerzia amministrativa verrebbe trasformata in un via libera: chi attende da cinque o quarant’anni una risposta otterrebbe automaticamente il riconoscimento di tutti i diritti urbanistici e catastali sull’immobile. Una “passata di spugna” poderosa, con effetti particolarmente forti proprio nelle aree dove l’abusivismo è più diffuso.
Le critiche degli ambientalisti: sicurezza, paesaggio e legalità
Le associazioni ambientaliste e molte realtà della società civile sono compatte contro questa ipotesi. La preoccupazione è che un silenzio assenso generalizzato finisca per legittimare non solo i piccoli abusi di necessità, ma anche gli edifici sorti in aree vincolate, sulle coste, lungo i corsi d’acqua, in zone a rischio idrogeologico o a pericolosità sismica elevata.
Un presidente di una delle principali associazioni ambientaliste ha sintetizzato così il timore: “Un meccanismo di questo tipo trasformerebbe il caos amministrativo in un gigantesco condono di fatto, senza valutare caso per caso la compatibilità urbanistica e la sicurezza delle persone”, ricordando che la priorità dovrebbe essere quella di proteggere vite, territorio e risorse pubbliche.
Gli ambientalisti non negano le difficoltà dei Comuni, spesso con organici ridotti all’osso e uffici tecnici sovraccarichi. Ma insistono sul punto: servono risorse e personale, non una resa incondizionata davanti alle pile di pratiche accumulate in decenni di malgoverno del territorio.
Demolizioni al rallentatore: solo un abuso su sei viene abbattuto
L’altro lato del problema è quello delle demolizioni. Negli ultimi anni, nelle regioni dove l’abusivismo è più radicato, le amministrazioni hanno emesso decine di migliaia di ordinanze di abbattimento per immobili costruiti illegalmente. Eppure, i dati disponibili indicano che solo circa il 15% di questi edifici è stato realmente demolito.
Il resto rimane in una sorta di limbo: case e palazzine colpite da un ordine di abbattimento, ma ancora in piedi, abitate o utilizzate, spesso in attesa di ricorsi, proroghe, sospensive. Una paralisi che finisce per minare la credibilità dello Stato e della stessa normativa urbanistica.
Le ragioni sono molteplici: procedure complesse, contenziosi giudiziari lunghi, resistenze politiche e sociali, difficoltà tecniche e logistiche nell’eseguire gli abbattimenti, fino alla cronica mancanza di fondi dedicati. Senza risorse adeguate, le ruspe restano ferme.
Territori fragili e rischio idrogeologico
L’abusivismo edilizio non è solo una questione di regole scritte e violazioni formali. Le conseguenze più gravi si vedono nei momenti di emergenza: alluvioni, frane, eventi meteo estremi. In molte cronache di disastri ricorrono le stesse immagini: case costruite lungo gli alvei dei torrenti, su costoni instabili, ai piedi di versanti ripidi, in aree dichiarate a rischio alto o molto elevato.
In questi contesti l’edilizia irregolare amplifica gli effetti degli eventi naturali, aumenta il numero delle persone esposte e rende più difficile l’evacuazione e la messa in sicurezza. Ogni condono, ricordano i tecnici, non cancella il rischio: legalizzare un edificio non lo rende meno vulnerabile.
A pesare è anche la perdita di suolo agricolo e naturale: negli anni, l’espansione disordinata delle periferie ha consumato terreni che avrebbero potuto assorbire acqua, mitigare il clima locale, garantire corridoi ecologici. Una volta trasformati in cemento e asfalto, quei suoli sono persi per sempre.
Uffici tecnici in affanno e Comuni sotto pressione
Nella maggior parte delle amministrazioni comunali, soprattutto nei piccoli centri e nel Mezzogiorno, gli uffici tecnici sono in sofferenza: organici ridotti, pensionamenti non sostituiti, difficoltà a reperire figure con competenze specifiche in urbanistica, ambiente, geologia, contabilità dei lavori pubblici.
Il risultato è un imbuto: migliaia di pratiche edilizie e di condono ferme da anni, controlli a campione anziché sistematici, difficoltà a programmare interventi di rigenerazione urbana. In questo quadro, la tentazione di “svuotare gli archivi” con un colpo di spugna è forte, ma rischia di scaricare sui territori fardelli ancora più pesanti.
Molti tecnici e amministratori chiedono invece interventi mirati: piani di assunzione straordinaria nei Comuni più esposti, sportelli unici digitali, banche dati integrate tra catasto, uffici urbanistici e autorità di bacino, procedure che rendano più veloce la repressione degli abusi senza rinunciare al controllo di legalità.
Una strategia alternativa al condono permanente
Gli esperti che si oppongono a nuove scorciatoie indicano una strada diversa: un vero e proprio piano nazionale di contrasto all’abusivismo edilizio. Alcune proposte ricorrenti riguardano l’introduzione di meccanismi automatici che obblighino le amministrazioni a intervenire sugli immobili illegali, l’istituzione di fondi dedicati alle demolizioni, il rafforzamento del ruolo dei prefetti nei casi di inerzia dei Comuni.
Accanto alla repressione, viene invocata una politica seria di rigenerazione urbana: recuperare il patrimonio esistente, riutilizzare le aree dismesse, incentivare la messa in sicurezza di edifici già presenti invece di consumare nuovo suolo. In questa prospettiva, il contrasto all’abusivismo non è solo un tema di ordine pubblico, ma anche una leva per migliorare la qualità della vita nelle città e nei paesi.
Come ha sintetizzato un urbanista impegnato su questi temi: “Ogni volta che si manda il messaggio che l’abuso prima o poi verrà perdonato, si indebolisce la fiducia di chi ha rispettato le regole e si alimenta l’idea che la scorciatoia sia più conveniente della legalità”. Una frase che riassume bene il rischio culturale, ancora prima che urbanistico.
Legalità, futuro e responsabilità politica
L’Italia, in definitiva, si trova davanti a un bivio. Può scegliere la strada della sanatoria permanente, trasformando la lentezza amministrativa in un lasciapassare per decine di migliaia di costruzioni nate fuori dalle regole. Oppure può imboccare la via, più faticosa ma più solida, di una legalità esigente e coerente, che non prometta condoni, ma investa in controlli, professionalità e progetti di trasformazione urbana.
Se prevarrà la logica del silenzio assenso, sarà difficile sostenere che il Paese ha davvero imparato la lezione delle frane, delle alluvioni, dei quartieri sorti dove non avrebbero mai dovuto nascere. Se invece si avvierà un percorso di lungo periodo, con risorse dedicate e obiettivi misurabili, l’abusivismo potrà finalmente essere considerato non più una “fatalità italiana”, ma un problema concreto da affrontare e ridurre.
La scelta, prima ancora che tecnica, è profondamente politica: riguarda l’idea di sviluppo, di giustizia e di sicurezza che si vuole offrire ai cittadini. E dirà molto sull’Italia che si intende costruire – questa volta, si spera, nel rispetto delle regole.