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Perché il governo aumenta l’accisa sul gasolio ma non sulla benzina

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Perché il governo aumenta l’accisa sul gasolio ma non sulla benzina

Dietro l’apparente tecnicismo della manovra fiscale si cela una scelta politica precisa: il governo ha deciso di aumentare gradualmente l’accisa sul gasolio fino a portarla allo stesso livello della benzina. Una misura che rientra negli impegni assunti con l’Unione Europea nel quadro del PNRR, ma che ha anche una valenza simbolica e strategica: penalizzare i carburanti più inquinanti e ridurre i cosiddetti “sussidi ambientalmente dannosi” (SAD), senza però far esplodere il malcontento sociale.

Perché il governo aumenta l’accisa sul gasolio ma non sulla benzina

Da sempre il gasolio ha beneficiato di una tassazione inferiore rispetto alla benzina. Ad oggi, l’accisa sulla benzina è fissata a 0,7284 euro al litro, mentre quella sul diesel si ferma a 0,6174 euro, con una differenza di 11 centesimi a favore del secondo. Un vantaggio che risale ai tempi in cui il diesel era considerato più efficiente e meno inquinante, una convinzione spazzata via dagli scandali sulle emissioni (Dieselgate) e dai nuovi studi che dimostrano come i motori a gasolio producano più particolato e ossidi di azoto rispetto a quelli a benzina.

La scelta di equiparare le accise non è solo una questione ambientale, ma anche di bilancio: ogni centesimo in più sul diesel vale circa 243 milioni di euro di gettito annuo per lo Stato. Risorse che, almeno nelle intenzioni, verranno reinvestite nel trasporto pubblico locale per incentivare modelli di mobilità più sostenibili.

La spinta del PNRR e l’impegno con Bruxelles
Il governo Meloni non aveva molta scelta: il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza prevede la progressiva riduzione dei sussidi ambientalmente dannosi e l’addio ai vantaggi fiscali per i carburanti fossili. Nel 2022, i SAD in Italia hanno superato i 24 miliardi di euro, con il gasolio che ha assorbito una fetta consistente di questi aiuti indiretti. Bruxelles chiede una riduzione di almeno 2 miliardi entro il 2026, e l’accisa sul gasolio è il primo passo in questa direzione.

La rimodulazione avverrà in modo graduale, con aumenti tra 1 e 1,5 centesimi al litro ogni anno per i prossimi cinque anni, fino al completo azzeramento della disparità con la benzina. Una strategia che punta a evitare shock sui prezzi e proteste sociali, specialmente tra le categorie più colpite: autotrasportatori, agricoltori e pendolari che si affidano al diesel.

Chi pagherà il conto?
I primi a subire gli effetti della riforma saranno i proprietari di auto diesel, che vedranno aumentare il costo del rifornimento. Per un pieno da 50 litri, l’aggravio sarà inizialmente di 0,61 euro, per poi salire gradualmente fino a 5,50 euro in cinque anni. Un costo contenuto, ma che su scala nazionale si tradurrà in un peso di oltre un miliardo di euro in più per le famiglie italiane.

Dall’altra parte, i possessori di auto a benzina beneficeranno di una lieve riduzione del costo del carburante, con un risparmio stimato tra i 249 e i 374 milioni di euro annui.

Una scelta tecnica o politica?
Al netto delle spiegazioni economiche e ambientali, il messaggio politico dietro la riforma è chiaro: il diesel è destinato a sparire. La transizione ecologica sta accelerando, e il governo – seppur con prudenza – si sta adeguando alle linee europee.

Le opposizioni attaccano: il PD accusa Meloni di scaricare il costo della transizione sui lavoratori, mentre il M5S parla di un favore alle lobby della benzina. Ma a conti fatti, l’aumento delle accise sul diesel era una misura inevitabile. La vera domanda è se gli italiani saranno pronti ad accettarla senza proteste.

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