Il detonatore: l’inviato Usa e la miccia riaccesa
La scena è artica, ma il rumore è globale: Donald Trump ha deciso di nominare un inviato speciale per la Groenlandia, rimettendo al centro un dossier che periodicamente torna a galla con la forza di un iceberg.
Il nome scelto è quello di Jeff Landry, governatore della Louisiana, incarico descritto come “special envoy” in un annuncio che ha immediatamente irrigidito i rapporti con il Regno di Danimarca e con Nuuk, capitale del territorio autonomo.
La nomina arriva nel solco di una linea politica già nota: Trump insiste da tempo sulla necessità strategica di un controllo statunitense dell’isola, presentandola come un tassello di sicurezza nazionale più che come una corsa ai minerali. E proprio questa ripartenza ha provocato una reazione a catena in Europa.
Il coro baltico: “Decidono solo Danimarca e Groenlandia”
A prendersi la prima pagina diplomatica sono stati i Paesi baltici, con dichiarazioni dal tono netto: nessuna ambiguità, nessun giro di parole.
Il ministro degli Esteri estone Margus Tsahkna ha messo il punto in un messaggio pubblico: le decisioni che riguardano Danimarca e Groenlandia “riguardano solo Danimarca e Groenlandia”, richiamando il principio-cardine del diritto internazionale: rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale.
In parallelo, il ministro degli Esteri lituano Kęstutis Budrys ha ribadito la solidarietà con Copenaghen e con i groenlandesi, incorniciando la questione in modo esplicito: integrità territoriale e sovranità sono fondamenta per pace e stabilità, e gli alleati devono parlare chiaro quando sono in gioco gli interessi di sicurezza comuni.
Tradotto dal linguaggio diplomatico: gli alleati contano, ma le frontiere contano di più.
Bruxelles e l’effetto domino: l’Europa si compatta sul principio
La scia delle reazioni non si ferma ai Baltici. Anche a livello europeo il messaggio rimbalza sullo stesso asse: la sovranità del Regno di Danimarca va preservata, Groenlandia inclusa.
In queste ore, il dibattito è diventato una cartina di tornasole per la tenuta politica dell’Occidente: perché l’Artico non è più un “lontano nord” da documentario, ma una zona di contatto tra NATO, Russia, Cina e nuove rotte marittime rese più praticabili dal riscaldamento globale.
Copenaghen e Nuuk: il “no” istituzionale e la questione del metodo
Da parte danese, la nomina è stata letta anche come un problema di procedura: un incarico annunciato senza un percorso condiviso, che rischia di trasformare un tema delicatissimo in un braccio di ferro mediatico.
Sul lato groenlandese, la risposta pubblica ruota attorno a un principio semplice: autodeterminazione. La Groenlandia ha un’autonomia ampia e una politica interna propria; la prospettiva di un futuro diverso dal legame con la Danimarca è discussa da anni, ma con una linea ricorrente: qualunque scelta, se mai arriverà, deve nascere lì, non altrove.
Landry prova ad abbassare i toni: “Non vogliamo conquistare”
Nel pieno della bufera, il neo-inviato Jeff Landry ha cercato di raffreddare la temperatura politica: in dichiarazioni pubbliche ha sostenuto che gli Stati Uniti non puntano a “conquistare” il territorio, ma a dialogare con i groenlandesi su bisogni e opportunità future.
È un tentativo di riposizionamento comunicativo: meno annessione, più interlocuzione. Ma la partita resta complicata, perché le parole di Trump negli ultimi mesi hanno spesso evocato scenari molto più duri, arrivando a non escludere opzioni di forza in passato e a incorniciare l’isola come “necessaria”.
Che cosa c’è davvero in gioco: sicurezza, radar, rotte, risorse
Dietro la retorica, l’Artico è un dossier ad alta densità strategica. La Groenlandia ospita una presenza militare statunitense di lungo periodo: la base di Pituffik (nota per decenni come Thule) è un nodo chiave per sistemi di allerta missilistica e sorveglianza nello spazio e nel Nord Atlantico.
A questo si aggiunge la geografia: la posizione dell’isola la rende un ponte naturale tra Nord America ed Europa, con implicazioni su rotte aeree e marittime. E poi ci sono le risorse: terre rare e materie prime critiche attirano l’attenzione, ma la Groenlandia — anche nei propri documenti di pianificazione — insiste su uno sviluppo responsabile, con vincoli ambientali e sociali.
Risultato: sicurezza e risorse si intrecciano, ma la vera linea di frattura è politica. Per l’Europa, la questione non è “chi sfrutta cosa”, bensì chi decide.
La dimensione NATO: alleati, fiducia e il tabù delle pressioni
Il dettaglio più sensibile è proprio questo: Danimarca, Stati baltici e Stati Uniti sono alleati nello stesso perimetro di difesa. Quando però un alleato percepisce una pressione su un territorio collegato a un altro alleato, scatta un allarme politico prima ancora che militare.
È qui che le parole di Tallinn e Vilnius pesano: ricordano che l’architettura di sicurezza euro-atlantica si regge su un patto implicito di fiducia e rispetto dei confini. E che, se quel patto vacilla, a tremare non è solo l’Artico: è l’intero quadro delle garanzie reciproche.
Che succede adesso: tre scenari possibili
Primo: la nomina resta un gesto politico e comunicativo, con Landry usato come canale di contatto “soft” e un ritorno a un dialogo più ordinato con Copenaghen e Nuuk.
Secondo: escalation diplomatica, con ulteriori prese di posizione europee e una frizione più esplicita tra Washington e partner UE/NATO sul perimetro del rispetto territoriale.
Terzo: la Groenlandia diventa un “caso scuola” di geopolitica delle materie prime e delle rotte polari, con un aumento della competizione (e delle iniziative) su investimenti, infrastrutture, presenza e sicurezza.
In tutti e tre gli scenari, una cosa è già chiara: l’Artico non è più un margine del mondo. È un centro nervoso.