La disobbedienza femminile scuote il regime e ne rivela la fragilità.
(Foto: Ali Khamanei, Guida Suprema dell'Iran).
In Iran l’inverno non è solo climatico. È politico, sociale, simbolico. A oltre due anni dall’uccisione di Mahsa Amini, la disobbedienza delle donne contro l’obbligo dell’hijab è diventata un fenomeno diffuso, quotidiano, impossibile da cancellare.
Donna, vita, libertà: una rivoluzione che cammina a capo scoperto
Il movimento Donna, Vita, Libertà ha superato la dimensione della protesta episodica per trasformarsi in un cambiamento culturale profondo. Nelle grandi città come Teheran, Isfahan e Shiraz, ma anche nelle periferie e nei centri minori, sempre più donne circolano senza velo o con l’hijab portato in modo simbolico, sfidando apertamente la legge.
Non è più un gesto isolato, ma una scelta collettiva. Il controllo sociale, pilastro del potere clericale dal 1979, mostra crepe evidenti: l’obbedienza non è più automatica, la paura non è più paralizzante.
La nuova legge e il fallimento della repressione
Nel 2025 il regime ha risposto con l’inasprimento della legge su Hijab e Castità, rafforzando sanzioni, multe, arresti e limitazioni all’accesso a servizi pubblici. Ma la norma, pur formalmente in vigore, viene largamente ignorata. La polizia morale fatica a intervenire ovunque e spesso preferisce tollerare per evitare nuove esplosioni di rabbia.
Questa contraddizione – tolleranza di fatto e repressione politica selettiva – è il segnale più chiaro della debolezza del sistema.
Narges Mohammadi, il Nobel che il regime teme
In questo contesto si inserisce il nuovo arresto di Narges Mohammadi, premio Nobel per la Pace e volto internazionale della lotta per i diritti umani in Iran. A dicembre 2025 l’attivista è stata fermata durante una cerimonia commemorativa e successivamente trasferita in detenzione.
Secondo fonti vicine alla famiglia, Mohammadi sarebbe stata aggredita durante l’arresto e ricoverata in ospedale due volte prima del trasferimento in carcere. Il suo nome è diventato un simbolo globale, e ogni atto repressivo nei suoi confronti produce l’effetto opposto: rafforzare l’attenzione internazionale sul sistema iraniano.
La contabilità orrenda delle esecuzioni
Parallelamente alla sfida femminile, il regime ha intensificato l’uso della pena di morte. Nel 2025 le esecuzioni hanno superato quota mille, colpendo oppositori politici, manifestanti, minoranze etniche e sociali. Processi sommari, confessioni forzate e accuse vaghe sono diventati la norma.
È una strategia del terrore che punta a compensare la perdita di consenso con la violenza istituzionale.
Un sistema detestato dalla maggioranza della popolazione
Sondaggi e analisi indipendenti indicano che oltre il 70-80 per cento degli iraniani non si riconosce più nel modello imposto dagli ayatollah. L’obbligo del velo è ormai percepito come il simbolo più visibile di un potere che non rappresenta la società.
Le donne, ancora una volta, sono l’avanguardia del cambiamento. Non chiedono solo di togliere l’hijab, ma di smantellare un sistema che regola i corpi, le parole e le vite.
Una tensione permanente
L’Iran del 2025 è attraversato da una tensione permanente. Da una parte un regime che reprime, arresta e condanna; dall’altra una società che non torna indietro. L’inverno degli ayatollah non è ancora la fine del sistema, ma è l’inizio del suo lento logoramento. E a guidarlo, senza armi ma con il coraggio quotidiano, sono le donne iraniane.