Il club delle star estinte

- di: Barbara Bizzarri
 
Sto perdendo tutti i miei punti di riferimento, i simboli della giovinezza, i protagonisti dei ricordi del bel tempo che fu, quando essere famosi andava oltre l’idea warholiana dei 15 minuti di celebrità che ora benedicono fino all’ultimo scappato di casa: essere famosi davvero, come cantava Irene Cara in Fame, essere universalmente famosi in tempi in cui non esistevano social, chat, smartphone, né era necessario mettere in piazza tutta la propria vita minuto per minuto, o farsi vedere mentre ci si lava la faccia, al cesso, a pranzo, in un’orgia demistificatoria tale da far perdere la trebisonda ai più impressionabili, essere famosi in un tempo in cui la fama si nutriva anche di mistero. 

Ed è proprio quel tipo di notorietà che fa percepire come amico un attore americano, un cantante, senza le note #adv in sovraimpressione. Forse per questo la morte di Matthew Perry (nella foto) ha colpito tutti senza sorprendere nessuno, come aveva già scritto lui, tristemente presago, nella sua autobiografia. Perché sembra davvero la morte di un amico che nei Novanta incontravamo una volta a settimana e adesso anche tutti i giorni a comando, lodate siano le piattaforme di streaming (e pure i dvd) che ci liberano dalla schiavitù della programmazione dei palinsesti. 

Eppure, nella mesta fine di Perry, ritrovato morto nella vasca da bagno, come tanti altri, da Jim Morrison a Whitney Houston, in una casa imbottita di antidepressivi e ansiolitici, la domanda che più di tutte balugina in mente è: perché dopo essersi spremute fino allo sfinimento per arrivare al successo, tante star muoiono come mosche? Perché cercare conferme a livello mondiale, desiderare “che tutti mi amino”, per arrivare alla conclusione che il successo non è la risposta, come scrive proprio lui, sconsolatamente, in Friends, amanti e la Big Bad Thing, se poi l’approdo resta la barca di Caronte e non si è nemmeno in un film di Woody Allen?

Ogni tanto mi chiedo che fine abbiano fatto i protagonisti dei miei pomeriggi trascorsi incollata alla tv (mi è sempre piaciuta tantissimo, bando agli snobismi) o con gli auricolari e, quando ne ho notizie, quasi puntualmente è un’ecatombe. Se non lo è e non sono defunti, circolano impazziti per le vie di LA, come Heather Locklear, indimenticabile protagonista di Melrose Place e mille altre serie tv. Tori Spelling, protagonista di Beverly Hills 90210, la prima di tutte le parishilton, ereditiere senza null’altro da fare che sfoggiare il proprio cognome, oggi vive in una roulotte, e in una roulotte fu trovata morta Erin Moran, la ‘Sottiletta’ di Happy Days, un’altra vita trascorsa a combattere contro le dipendenze, guadagni milionari in fumo, morta a poco più di cinquant’anni. 

Due giorni fa il cast di Friends ha salutato l’interprete di Chandler Bing al Forest Lawn Memorial Park di Los Angeles, il cimitero che, con il solito impareggiabile pragmatismo, gli americani definiscono quello in cui ci sono più star, tra cui Debbie Reynolds e Brittany Murphy, giovane attrice la cui morte è tuttora avvolta nel mistero, come quella di Perry, per cui hanno perfino aperto un’indagine per sospetta rapina nella sua casa a Pacific Palisades, pallida eco di quando poteva permettersi magioni milionarie. 

Perry è l'ultimo di un elenco di attori dalla doppia vita, di cui una stroncata prematuramente, e l'altra che prosegue ancora nell'immaginario collettivo, come accade per innumerevoli protagonisti di tante sitcom, tra cui Glee, ormai sinonimo di maledizione, con diverse morti violente nel giro di pochi anni, a partire da Mark Salling, nella serie Noah Puckerman, che nel 2013 si suicidò un mese prima di ricevere la sentenza per l'accusa di possesso di materiale pedopornografico. Dopo di lui, Cory Monteith (Finn Hudson, uno dei protagonisti) fu stroncato a 31 anni da un mix letale di eroina e alcol. 

Stessa sorte è toccata a quasi tutti gli attori di Different Strokes,  ovvero Il mio amico Arnold, sitcom di grande fama negli Anni 80, il cui protagonista, Gary Coleman, affetto da una grave patologia renale che lo imprigionava in un corpo da bambino di soli 142 cm di altezza, vide progressivamente scemare popolarità e ricchezze, fu coinvolto in episodi sconcertanti di violenza domestica per poi morire malamente a causa di una caduta dalle scale dai contorni piuttosto oscuri, tanto che fu persino indagata la moglie; mentre Dana Plato, interprete della sorella Kimberly, morì per un'overdose a soli 35 anni dopo una lunga dipendenza anche dall’alcool. Nel 2010 suo figlio, allora 21enne, si uccise credendosi la causa di tutti i mali della madre. 

Di oggi è la notizia della morte di Evan Ellingson, un altro attore americano, ex "enfant prodige". Arrivato al successo a soli 13 anni, Evan si era ritirato dalle scene oltre dieci anni fa perché la pressione mediatica era diventata insostenibile. Tornato sullo schermo con il ruolo di Kyle Harmon in CSI: Miami, aveva trentacinque anni. Non sono stati rilasciati troppi dettagli sulla causa della sua morte, eppure i genitori si disperano, spiegando che «si stava lasciando alle spalle i problemi con la droga». A Hollywood tutti puntavano sul suo ritorno, ma forse, chissà, aveva ragione Marilyn quando descriveva la città degli angeli come il luogo dove “ti pagano mille dollari per un bacio e 50 cents per la tua anima”.
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