Crisi chip: nessuna quiete dopo la tempesta - L’analisi di Bain & Company

- di: Gianluca Di Loreto (Partner, Bain & Company Practice Automotive)
 
Che il COVID abbia portato la “tempesta perfetta” nel settore dell’auto è cosa nota. Meno noto, almeno a chi non è del settore, è che a questa tempesta non è seguita alcuna quiete: mentre gli altri settori industriali sono ripartiti da mesi, per l’auto il vento forte non si è placato; la mancanza di semiconduttori ed il rialzo a doppia/tripla cifra del costo dell’energia e delle materie prime continuano a scuotere il settore. L’auto si è svegliata dall’incubo del lockdown scoprendo di avere un peso relativo per l’industria dei chip, un componente fondamentale per un’auto elettrica di ultima generazione che può contarne fino a 3.000 (contro le poche decine di un’auto endotermica tradizionale); e purtroppo l’industria dei semiconduttori ora guarda da un’altra parte, intenta a servire clienti più remunerativi e provocando una mancata produzione di 10 milioni di auto in soli 18 mesi.

Il comparto auto è stato travolto dalla crisi dei chip

A questo si aggiunge il rincaro più forte di sempre per le fonti energetiche (gas ed energia in primis), i metalli (ferro e rame) e i minerali (cobalto e litio). Sono gli effetti combinati di più cause, tra cui la progressiva elettrificazione delle vetture (che cambia la bill of material di un’auto, avvicinandola a quella di un computer), la concentrazione geografica delle materie prime (cobalto e terre rare in particolare) e dei Paesi di produzione, Cina fra tutti, e non da ultime le difficoltà nei trasporti via terra e mare. Molte di queste cause, ed i relativi effetti, sono temporanee. Altre, invece, sono strutturali perché connesse alla crescita della domanda sottostante. Il settore auto è ora chiamato a rivedere i paradigmi fondanti degli ultimi decenni, muovendosi per tempo e integrando parte delle filiere a monte.

La crisi dei chip ci ha dimostrato che l’auto conta…ma c’è chi conta di più
L’elettrificazione delle auto ed i sistemi ADAS stanno incrementando in modo significativo il numero di chip, e quindi di semiconduttori, presenti in ogni auto. Un’auto assomiglia sempre di più ad un computer, sia come funzioni che come componenti: 3.000 chip per ogni veicolo non sono un dettaglio. Peccato che l’automotive pesi a livello globale solo l’8% del totale fatturato dei semiconduttori; la parte più rilevante è composta piuttosto dai computer/tablet e dagli smartphone (in particolare post-pandemia), che da soli valgono più del 60% del fatturato. Ma le notizie a cui guardare con cautela non si esauriscono qui: a questo trend, infatti, si aggiunge anche la forte concentrazione delle materie prime e dei produttori di semiconduttori. Il Sud-Est asiatico la fa da padrone, con la sola TSMC di Taiwan che vale molto più della metà della produzione mondiale di chip sotto i 40-45 nanometri, surclassando concorrenti del calibro di Samsung. Per il gigante TSMC la produzione di chip >28 nanometri, quelli cioè usati anche nelle automobili, pesa meno del 25% del fatturato e all’auto va comunque una parte minima.

Le automobili muovono quindi milioni di persone ma contano in modo relativo nella filiera dell’elettronica, alla quale si stanno affacciando negli ultimi anni. Perché allora non aumentare la produzione di chip, vista la domanda crescente da parte dell’auto? Per due ordini di ragioni. Il primo riguarda le caratteristiche della filiera produttiva: le prime 5 fonderie al mondo già a inizio 2020 (pre-pandemia) erano sature oltre il 90%; costruire una nuova fabbrica di semiconduttori richiede 2-3 anni, per aumentare la capacità di quelle esistenti serve più di un anno, e ridisegnare un nuovo prodotto / processo produttivo non è fattibile in meno di 18 mesi. La seconda ragione attiene alle priorità dell’industria dei chip: per aziende come TSMC conviene investire in tecnologie definite leading edge (<15 nanometri) o bleeding edge (<10 nanometri), visto l’incremento nella domanda degli apparati tecnologici (al Q1 2021, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, i laptop hanno registrato un +75%; i tablet un +64% e gli smartphone +42%) che su di esse si fondano. Durante questo boom di domanda di tecnologia l’auto ha invece ridotto drasticamente gli ordini e chiuso le fabbriche a causa della pandemia. È naturale quindi che sia finita in coda nella corsa ai chip. Ma perché si parla solo di auto? La crisi dei chip non vale anche per gli altri settori? La realtà è che l’auto si è fatta cogliere impreparata: scorte al minimo (lean production docet), poca attenzione alle catene di fornitura (v. conseguenze dello tsunami in Giappone, che portò ad una crisi degli schermi LCD), poca leva sui volumi. La conseguenza è sotto gli occhi del mondo: 10 milioni di unità perse dal primo trimestre 2021 al secondo-terzo trimestre 2022, con perdite miliardarie per il settore.

Il costo esorbitante delle materie prime soffia sul fuoco dell’incertezza

Come se non bastasse, la pandemia ed i suoi effetti hanno completamente alterato i flussi logistici e quindi la disponibilità di materie prime. Dato per assodato l’aumento del costo dell’energia (+44% rispetto a gennaio 2019), che sta impattando tutti i settori, è in particolare l’incremento del costo di alcuni metalli e minerali a destare preoccupazione. Rispetto al gennaio del 2019, il costo del ferro è aumentato del 180%, quello del rame del 60%, nickel e alluminio tra il +45% e +55%. Litio e cobalto, minerali fondamentali per la produzione di batterie, sono aumentati rispettivamente del 180% e del 70%. Sono molteplici le ragioni di questi incrementi senza precedenti, ma quella forse più rilevante è l’aumento prospettico della domanda sottostante. La crescita al 2040 (rispetto al 2020) della domanda di litio è prevista in aumento di 13 volte in uno scenario “Base”, di più di 40 volte in uno scenario “Sostenuto”. Si parla invece di crescite di 6-8 volte (scenario Base) e 20 volte (scenario Sostenuto) per cobalto, nickel, grafite. E non è impossibile credere a questi valori se si pensa che la quantità di grafite, nickel, rame, cobalto, litio può raggiungere i 210 Kg per vettura rispetto ai pochi chili delle vetture attuali9. Difficile intravedere una via d’uscita se si pensa poi che l’estrazione e la produzione di questi minerali sono appannaggio di pochi Paesi. Il litio è presente in larga parte in Australia, ma è prodotto soprattutto dalla Cina. Il 70% delle riserve di cobalto è in Congo, ma viene lavorato quasi tutto in Cina. E percentuali simili si applicano anche a rame, grafite e terre rare.

Cosa può fare il settore per uscire dall’impasse?
Integrarsi a monte sulla catena del valore (Tesla e BMW hanno già stretto accordi con alcune miniere di litio), segmentare con attenzione le diverse categorie di componenti e creare un piano B per quelle più critiche. Tutto ciò non sarà però sufficiente: sarà infatti imprescindibile anche sviluppare e favorire una cultura organizzativa agile, in grado di adattarsi velocemente al contesto esterno e definire modelli di incentivazione che supportino le scelte basate sul calcolo del rischio, invece di premiare esclusivamente i ritorni certi, solo perché basati su modelli consolidati (che però non funzionano più).
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Italia Informa n° 2 - Marzo/Aprile 2024
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