Piove dove non dovrebbe piovere, grandina quando il cielo dovrebbe essere limpido, i fiumi traboccano, la terra si spacca. L’Italia si scopre ogni anno più vulnerabile, e non è più un’impressione: è un dato. Secondo l’ultimo rapporto CittàClima di Legambiente, nei primi nove mesi del 2025 si sono registrati 97 eventi meteorologici estremi in 136 comuni sopra i cinquantamila abitanti. In dieci anni, dal 2015 a oggi, gli episodi sono stati oltre 800.
Clima, l’Italia sotto assedio: quasi cento eventi estremi nel 2025, allarme di Legambiente
Dietro le cifre ci sono storie di vite interrotte, quartieri allagati, raccolti distrutti, famiglie evacuate. E c’è un Paese che continua a trattare l’emergenza come una parentesi, invece che come una condizione strutturale.
Un Paese che cambia clima, ma non passo
Le mappe di Legambiente disegnano un’Italia divisa ma ugualmente fragile: il Nord alle prese con piogge torrenziali e fiumi che saltano gli argini, il Sud colpito da ondate di calore e siccità croniche. Non c’è più una linea di confine tra l’inverno e l’estate, tra il rischio idrogeologico e quello termico.
Nel 2025, i fenomeni più frequenti restano gli allagamenti da piogge intense, seguiti da trombe d’aria, esondazioni fluviali e grandinate violente. Il clima mediterraneo, per secoli sinonimo di equilibrio, è diventato un campo di battaglia atmosferico.
Eppure, secondo il rapporto, solo il 39,7% dei comuni colpiti ha adottato piani o strategie di adattamento climatico. La maggioranza continua a rincorrere il danno, invece di prevenirlo.
Il conto economico del cambiamento
Ogni volta che il cielo cede, si apre anche un buco nei conti pubblici. Alluvioni, smottamenti e tempeste non sono più solo problemi ambientali: sono voci di bilancio. Distruggono infrastrutture, interrompono la produzione, bloccano trasporti e filiere.
L’Italia, secondo le stime di Bruxelles, perde ogni anno oltre 10 miliardi di euro a causa dei danni diretti e indiretti provocati dagli eventi estremi. Una cifra che cresce in parallelo al riscaldamento globale.
L’assenza di strategie strutturali significa che il denaro speso per riparare non si trasforma mai in investimento. Ogni emergenza diventa una tassa occulta, pagata due volte: con i fondi pubblici e con il lavoro che si ferma. È un paradosso economico: il clima che cambia rallenta la crescita, ma l’incapacità di adattarsi la congela.
L’Italia del dopo-disastro
C’è una fotografia che si ripete: stivali di gomma, idrovore, telecamere e promesse. Ogni alluvione è un déjà-vu politico, ogni frana una conferenza stampa di buone intenzioni. L’allarme di Legambiente è chiaro: non si può più chiamare eccezionale ciò che ormai è la norma.
Le città si allagano non solo per colpa della pioggia, ma per reti fognarie obsolete, consumo di suolo, cementificazione spinta. Le campagne bruciano non solo per il caldo, ma per la mancanza di manutenzione e prevenzione.
“Servono azioni concrete e urgenti” è il titolo del rapporto. Parole semplici, ma che oggi suonano come una diagnosi impietosa di immobilismo.
Il valore dell’adattamento
Adattarsi al clima che cambia non significa arrendersi, ma governare il cambiamento. Significa pianificare le infrastrutture tenendo conto delle nuove mappe meteo, investire in bacini di laminazione, in rinverdimento urbano, in gestione delle acque e in sistemi di allerta integrati.
È una sfida che non riguarda solo l’ambiente, ma l’economia reale: l’industria assicurativa, le costruzioni, l’agricoltura, il turismo. Ogni settore produttivo è esposto al rischio climatico, eppure il Paese continua a trattarlo come un tema per ambientalisti.
Nel linguaggio di Legambiente, “resilienza” non è più uno slogan, ma una politica economica: ridurre il danno prima che accada, come un’impresa che investe per non fallire.
Dal rischio al progetto
La verità è che l’Italia ha una doppia fragilità: naturale e burocratica. È un territorio delicato, ma anche un sistema che reagisce lentamente. Il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici è ancora bloccato nella fase di attuazione, mentre i comuni più colpiti mancano di risorse e competenze per metterlo in pratica.
Eppure, basterebbe poco per trasformare l’allarme in un piano di rilancio: fondi europei mirati, coordinamento tra enti, una governance che premi chi previene.
Il clima, oggi, non è più un argomento per conferenze: è una variabile economica strutturale. E il modo in cui l’Italia sceglierà di gestirla determinerà non solo la sicurezza dei territori, ma la tenuta del suo futuro produttivo.
L’economia del disordine
Ogni tempesta è anche una lezione di economia. L’acqua che sommerge le strade è la metafora perfetta di un Paese che si lascia travolgere dagli eventi, senza una diga di visione. L’Italia spende miliardi per rimediare, ma investe poco per prevenire.
L’allarme di Legambiente non è un manifesto ambientalista, è un bilancio anticipato: un Paese che non pianifica paga due volte – in denaro e in fiducia. E la fiducia, come il clima, è una risorsa fragile.
A fine 2025, i numeri dicono che gli eventi estremi sfiorano quota cento. Ma dietro quel numero c’è un’altra statistica invisibile: la distanza tra ciò che sappiamo e ciò che facciamo.
Finché resterà così, ogni pioggia sarà una resa annunciata. E ogni emergenza, un promemoria del futuro che continuiamo a rimandare.