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Cuba al buio, in fuga: l’isola che non ce la fa più

- di: Marta Giannoni
 
Cuba al buio, in fuga: l’isola che non ce la fa più

Blackout di ore, stipendi da 30 euro, farmaci scomparsi: mentre l’élite si arricchisce, Cuba perde un milione di abitanti e chi resta vive sospeso fra orgoglio, paura e l’idea di partire al più presto.

(Foto: Cuba, L'Avana).

La luce si spegne come se qualcuno avesse abbassato un interruttore gigante sul Caribe. Ventilatori fermi, frigoriferi che iniziano a sudare, telefoni che diventano l’unica torcia disponibile. In molti quartieri dell’Avana la scena si ripete più volte a settimana, con interruzioni che possono durare anche venti ore. Nei paesi dell’interno è spesso peggio: il buio arriva nel pomeriggio e se ne va il giorno dopo.

I blackout non sono più un incidente, ma l’ossatura stessa della giornata. Le famiglie calcolano i pasti in base a quando tornerà la corrente, riorganizzano il lavoro, rimandano visite mediche e lavatrici. Chi può permetterselo ha installato un generatore a benzina, rumoroso e carissimo da alimentare. Chi non può, aspetta e spera che il cibo nel frigo si salvi.

Un milione di cubani in meno e una generazione in partenza

Negli ultimi anni, Cuba ha vissuto la più grande ondata migratoria dalla Rivoluzione. Le stime più accreditate indicano che tra il 2022 e il 2023 oltre un milione di persone ha lasciato l’isola, quasi un abitante su dieci, in gran parte giovani in età lavorativa diretti soprattutto verso Stati Uniti e America Latina. Per interi quartieri dell’Avana, di Santiago o di Camagüey, “partire” non è più un progetto: è l’unico argomento di cui si parla.

In una casa umida del centro storico, Belkis, 49 anni, maestra, racconta la nuova normalità davanti a una candela che si consuma troppo in fretta. “La sera ci chiediamo se riusciremo a salvare il cibo nel frigo e a ricaricare il telefono”, dice, seduta accanto alla madre anziana. “I miei ex studenti mi scrivono da Miami o dal Cile. Mi dicono di raggiungerli, ma io ho i genitori qui. Ho paura di diventare l’ultima a spegnere la luce”.

Il risultato è una isola più vecchia e più stanca, dove mancano braccia nelle campagne, tecnici nelle centrali elettriche, medici negli ospedali. E dove ogni famiglia ha almeno un parente all’estero, trasformato in ammortizzatore sociale tramite le rimesse in dollari.

Stipendi da 7 a 30 euro e la corsa disperata ai dollari

Il problema non è solo che la luce manca: è che anche quando c’è, i soldi non bastano. Il salario mensile di un addetto alle pulizie può equivalere a 7–10 euro, mentre un medico guadagna attorno ai 30 euro al mese. Cifre che non coprono neppure due settimane di spesa minima, in un contesto di inflazione e scaffali spesso semivuoti.

A rendere tutto più esplosivo è la dollarizzazione di fatto dell’economia. La valuta ufficiale resta il peso cubano, ma le merci migliori – dal latte in polvere al detersivo, fino all’olio – si trovano nei negozi che accettano solo dollari o euro, caricati su carte elettroniche. Chi viene pagato in pesos è costretto ogni mese a passare dal mercato nero per comprare valuta forte, sempre più costosa, spesso venduta all’angolo di una strada o in chat chiuse.

José Miguel, 35 anni, autista che gira la provincia con un vecchio minibus, riassume così la spirale: “Lo Stato mi paga in pesos. Per comprare carburante e cibo devo cambiare in dollari a un tasso che aumenta continuamente. È come inseguire un treno che accelera ogni giorno: corro, ma resto sempre indietro”.

La sanità gratuita senza antibiotici e gli ospedali in affanno

Uno dei vanti storici del Paese è la sanità universale e gratuita, ancora oggi considerata tra le più capillari della regione. Negli ambulatori di periferia, sulle pareti resistono poster che celebrano le brigate mediche inviate all’estero, dal Venezuela all’Africa. Ma dietro le porte, i medici si arrangiano con quello che hanno: spesso, poco o niente.

Mancano antibiotici, antipiretici, perfino la banale tachipirina. Le famiglie si organizzano in reti informali: chi ha un parente che lavora in un hotel prova a intercettare le medicine lasciate dai turisti; chi vive vicino a un porto aspetta il parente marittimo con la valigia piena di blister. Nelle campagne, non è raro che la richiesta di aiuto non sia “dammi qualche peso”, ma “puoi procurarmi delle pastiglie per la febbre?”.

Yamila, infermiera pediatrica, racconta la contraddizione con una calma inquieta: “Se un bambino ha bisogno di un’operazione, il sistema lo assiste. Ma quando esce dall’ospedale, i genitori non trovano il farmaco per la terapia successiva”, spiega. “Non è facile dire a una madre che abbiamo la competenza, ma ci mancano le medicine di base”.

Blackout, benzina razionata e rete elettrica allo stremo

L’energia è il cuore della crisi. Una rete elettrica obsoleta, centrali che saltano, carburante che arriva a singhiozzo: la combinazione ha prodotto negli ultimi anni grandi blackout nazionali e un’infinità di interruzioni locali. Alcuni collassi dell’intera rete hanno lasciato al buio tutto il Paese per ore, se non per giorni, con gravi conseguenze su ospedali, trasporti e conservazione degli alimenti.

Alla pompa di benzina, la scena è sempre la stessa: fila di auto, camion e motociclette in attesa. I rifornimenti sono irregolari, e ogni veicolo può ritirare solo una quantità limitata di carburante. Chi vive fuori città si arrangia con carretti trainati da cavalli, biciclette, passaggi di fortuna.

Adrián, sessant’anni, guida un vecchio pulmino che ancora porta in giro turisti e lavoratori: “Ogni mattina vengo qui senza sapere se oggi farò rifornimento”, dice, indicando una coda che scompare dietro l’angolo. “A volte aspetto cinque ore e mi mandano via a mani vuote. Ma il lavoro, la scuola dei nipoti, dipendono da questo pieno che non arriva mai”.

Il turismo che non decolla e le case particulares sotto pressione

Per anni, il turismo è stato la valvola di sfogo dell’economia cubana. Dopo la pandemia, però, i flussi non sono mai tornati ai livelli sperati. Le restrizioni sui viaggi da parte degli Stati Uniti, i costi elevati, la concorrenza di altre mete caraibiche e l’immagine di un Paese “sempre in emergenza” hanno rallentato le prenotazioni.

Le case particulares, le abitazioni private che ospitano stranieri, restano uno dei pochi modi per guadagnare dollari sull’isola. Molte hanno investito in generatori, piccoli impianti solari, condizionatori di riserva: per chi paga in valuta forte, si tenta di garantire aria fresca e Wi-Fi anche durante i blackout. Ma le tasse sono pesanti e la burocrazia opaca. Non tutti riescono a far quadrare i conti, soprattutto nelle zone fuori dai circuiti turistici dell’Avana Vecchia o di Varadero.

Rosa, guida turistica nella capitale, accompagna un piccolo gruppo attraverso le piazze coloniali mentre spiega la storia del Paese. Poi abbassa la voce: “Io amo questa terra, non ho mai pensato di lasciarla. Ma da quando è nato mio figlio, mi chiedo che futuro potrà avere”. E, dopo una pausa: “Non posso permettermi di sognare una vita migliore qui se non vedo cambiamenti veri”.

Embargo, lista nera e la nuova stretta di Washington

Nella lettura ufficiale del governo, quasi ogni problema ha un unico colpevole: l’embargo statunitense, in vigore in varie forme dagli anni Sessanta, che limita finanziamenti, commercio e investimenti. Negli ultimi anni, la situazione si è complicata ulteriormente con la permanenza di Cuba nella lista statunitense dei “Paesi sponsor del terrorismo”, una designazione che rende ancora più difficili le transazioni bancarie e scoraggia molte imprese internazionali.

Dopo timidi segnali d’apertura, la politica di Washington è tornata su posizioni dure con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. La decisione di mantenere l’isola nella lista dei Paesi sponsor del terrorismo, dopo il tentativo della precedente amministrazione di rimuoverla, ha consolidato un quadro di sanzioni pesanti. Per l’economia cubana, significa meno credito, meno accesso a tecnologie, maggiore isolamento finanziario: in altre parole, meno margine per uscire dalla spirale di crisi.

Sul Malecón, il lungo viale affacciato sul mare, l’argomento divide. C’è chi vede nell’embargo la radice di tutto, e chi attribuisce alle scelte di Washington al massimo “un pezzo del disastro”. In mezzo, la vita di milioni di persone che pagano il prezzo di un braccio di ferro geopolitico lontano dalle loro case sbucciate di umidità.

Il potere opaco delle élite e l’impero delle grandi holding

Se ci si allontana dal mare e si sale sui colli che dominano l’Avana, lo scenario cambia. Ville coloniali restaurate, auto moderne, guardie in uniforme. Qui abitano i dirigenti di grandi imprese pubbliche, manager di gruppi legati alle forze armate, funzionari di alto livello. Guardando dall’alto, la distanza tra i discorsi ufficiali sulla rivoluzione e la realtà degli stili di vita appare brutale.

José Miguel indica quelle colline con un’espressione di amara ironia: “Là sopra non manca mai la luce, né la benzina. Noi giù ci arrangiamo”. Le grandi holding che controllano hotel, porti, negozi in valuta forte e società finanziarie sono spesso sotto il cappello di conglomerati legati all’esercito. I loro bilanci sono avvolti nel segreto, mentre le strade delle periferie restano dissestate, i palazzi cadono a pezzi e gli autobus si fermano per mancanza di pezzi di ricambio.

La parola più pronunciata sottovoce è “corruzione”: appalti gestiti nell’ombra, privilegi, canali preferenziali per l’accesso a carburante e generi di importazione. Mentre la popolazione fa code interminabili per una tanica d’olio o per un pacco di pollo congelato, cresce il sentimento di distanza verso un’élite che appare sempre più blindata.

Connessi, sorvegliati e razionati: la nuova vita digitale cubana

Per anni, internet a Cuba è stato un miraggio. Oggi la situazione è cambiata: smartphone e social network sono diventati parte della vita quotidiana, specialmente dei più giovani. Ma anche qui la crisi si sente. I pacchetti dati acquistabili in valuta locale sono limitati, e per avere più gigabyte bisogna pagare in dollari a tariffe che pochi possono permettersi.

Le reti sociali sono, allo stesso tempo, una finestra sul mondo e un luogo di controllo. Dai gruppi privati partono le informazioni sulle rotte per lasciare l’isola, sui contatti degli “scafisti” in America Centrale, sui prezzi del cambio peso/dollaro nel mercato parallelo. Ma circolano anche video di proteste, denunce di arresti, appelli per i detenuti politici: contenuti che le autorità cercano di contenere con blocchi temporanei e sorveglianza.

Chi resta: artisti, piccoli imprenditori e la resistenza quotidiana

Nonostante tutto, Cuba non è solo fuga, code e buio. Nelle vie dell’Avana, la musica continua a uscire dalle finestre, le gallerie indipendenti organizzano mostre con tele dipinte su qualunque supporto disponibile, dai cartoni alle vecchie lenzuola. Nuove generazioni di musicisti, programmatori, fotografi, cercano di costruirsi un futuro senza abbandonare l’isola.

Santiago, 50 anni, musicista e pittore, indica un pianoforte con due tasti mancanti. “I pezzi di ricambio non arrivano, dovrei farli spedire dall’estero e non ho i soldi”, racconta. Ma quando si siede a suonare, la stanza si riempie e fuori il vicolo si ferma ad ascoltare. “Qui dobbiamo fare tutto con passione”, dice alla fine. “Non basta lavorare: devi crederci davvero, perché spesso l’unica cosa che ti tiene a galla è quello che ami fare”.

La stessa ostinazione si vede nei piccoli ristoranti aperti in salotti di famiglia, nei taxi improvvisati con auto degli anni Cinquanta, nelle lezioni di lingua date online ai clienti d’Europa. Ogni micro-attività è un tentativo di strappare un pezzo di autonomia a un sistema economico che sembra fatto per scoraggiarla.

Un futuro sospeso tra orgoglio e resa

Cuba vive oggi una crisi che molti cubani definiscono “peggiore di quella degli anni Novanta”, quando la fine dell’Unione Sovietica fece crollare in pochi mesi i pilastri economici su cui l’isola si reggeva. Oggi la combinazione di errori interni, sanzioni esterne, infrastrutture al collasso e fuga di capitale umano rischia di lasciare un Paese svuotato, dove restano gli anziani, i funzionari, chi non ha alternative.

Eppure, anche nel buio dei blackout, l’orgoglio identitario resta tenace. In molti rivendicano i risultati in campo sanitario e educativo, la sicurezza relativa rispetto ad altri Paesi della regione, la capacità di resistere a decenni di pressioni. Ma sempre più spesso, la frase che si sente infilarsi nelle conversazioni è “non può continuare così”.

Sul lungomare dell’Avana, al tramonto, giovani coppie e famiglie si siedono sul muretto del Malecón, guardando verso il nord, verso quella linea dove finisce il mare e comincia il mito degli Stati Uniti. Alcuni stanno già risparmiando per il viaggio, altri sanno che non partiranno mai. Tutti, però, condividono la stessa domanda: dopo tanti anni di promesse, quale futuro può offrire ancora un’isola che si svuota e si spegne così spesso nel buio?

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