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Eurovision 2026, Israele resta in gara e 4 Paesi se ne vanno

- di: Vittorio Massi
 
Eurovision 2026, Israele resta in gara e 4 Paesi se ne vanno
Eurovision 2026, Israele resta in gara e 4 Paesi dicono no
Spagna, Irlanda, Olanda e Slovenia boicottano Vienna 2026: cosa è successo a Ginevra, le nuove regole di voto e il rischio effetto domino.

L’Eurovision Song Contest 2026 nasce già nel pieno di una tempesta politica. A Ginevra l’Unione europea di radiodiffusione (Ebu) ha deciso che Israele potrà partecipare alla 70ª edizione del concorso, in programma a Vienna dal 12 al 16 maggio 2026. La risposta è stata immediata: Spagna, Irlanda, Olanda e Slovenia hanno annunciato il boicottaggio, ritirando non solo le proprie canzoni, ma in alcuni casi anche la messa in onda del programma.

Il risultato è uno strappo che non ha precedenti per dimensione nella storia del contest e che mette in discussione l’immagine dell’Eurovision come “festa apolitica della musica” proprio nell’anno del suo anniversario tondo.

La riunione di Ginevra: Israele resta, niente voto sull’esclusione

Al centro delle polemiche c’è la riunione dell’Assemblea generale dell’Ebu del 4 dicembre 2025 a Ginevra. Diversi broadcaster pubblici avevano chiesto un voto specifico sulla partecipazione di Israele, alla luce della guerra a Gaza e delle accuse di uso politico del concorso. Quel voto non c’è stato: la maggioranza dei membri ha scelto una strada diversa, approvando una riforma delle regole di voto ma confermando il via libera a tutti i Paesi idonei, Israele compreso.

La linea ufficiale dell’Ebu insiste sulla necessità di proteggere la neutralità del contest: il concorso non sarebbe il luogo in cui decidere sanzioni politiche, ma uno spazio di “dialogo attraverso la musica”. Per i quattro Paesi che ora si sfilano, però, questa neutralità è diventata insostenibile, alla luce della situazione a Gaza e del ruolo che attribuiscono alla diplomazia culturale israeliana.

Chi boicotta e perché: le accuse di Spagna, Irlanda, Olanda e Slovenia

I primi a rompere gli indugi sono stati Irlanda, Olanda e Spagna, seguiti a stretto giro dalla Slovenia. Tutti e quattro i broadcaster pubblici – l’irlandese RTÉ, l’olandese AVROTROS, lo spagnolo RTVE e la radiotelevisione slovena RTVSLO – avevano già da mesi messo le carte in tavola: se Israele fosse rimasta in gara, il loro posto a Vienna sarebbe restato vuoto.

Nelle note diffuse dopo la riunione di Ginevra i toni sono duri. RTÉ richiama la “gravissima crisi umanitaria a Gaza” e il numero di vittime civili, oltre alle denunce internazionali sul trattamento dei giornalisti in zona di guerra. AVROTROS insiste sul fatto che, a suo giudizio, la partecipazione di Israele è incompatibile con i valori di pace e diritti umani che l’emittente attribuisce al concorso, e cita anche le polemiche sulla gestione del voto nell’edizione 2025.

RTVE si era già espressa in modo netto in Parlamento e nei propri organi interni: nessuna partecipazione, e neppure trasmissione dell’evento, se ai delegati israeliani fosse stata lasciata la porta aperta. La slovena RTVSLO, da parte sua, spiegava da settembre che la scelta definitiva sarebbe dipesa proprio dalla capacità dell’Ebu di dare risposte sufficienti sulla trasparenza del voto. In mancanza di queste risposte, è arrivato il “no” definitivo.

Il boicottaggio non è simbolico: Irlanda e Spagna sono tra i Paesi storicamente più forti all’Eurovision, con l’Irlanda record assoluto di vittorie. Quattro defezioni tutte insieme, e tutte motivate politicamente, rappresentano un colpo serio alla credibilità del concorso.

Le nuove regole di voto: televoto dimezzato e giurie rafforzate

Per tentare di disinnescare le tensioni e rispondere alle accuse di “manipolazione del voto”, l’Ebu ha varato una riforma profonda del sistema di voto per Vienna 2026, preparata già a novembre e formalmente approvata a Ginevra.

Il primo punto chiave riguarda il televoto: il numero massimo di voti per ogni metodo di pagamento (online, sms, telefonata) viene dimezzato, da 20 a 10. L’obiettivo dichiarato è ridurre il peso delle campagne più aggressive e incoraggiare il pubblico a distribuire il proprio sostegno tra più brani.

Torna inoltre in grande stile la giuria professionale nelle semifinali, dopo gli esperimenti degli ultimi anni che avevano dato più spazio al televoto puro. Le giurie nazionali saranno composte da sette membri invece dei precedenti cinque, con l’obbligo di includere almeno due giurati tra i 18 e i 25 anni e con una platea di professioni ammesse più ampia, dal mondo discografico a quello radiofonico e dei nuovi media.

Le regole aggiornate inseriscono anche limiti stringenti alle campagne promozionali sponsorizzate da governi o soggetti terzi, proprio il tipo di pressione che aveva fatto esplodere le polemiche sulla partecipazione israeliana nel 2025. Resta però il punto politico: Israele è dentro, e per i quattro Paesi del boicottaggio questo rende insufficienti anche le riforme più avanzate.

Herzog esulta: “Israele deve essere su ogni palcoscenico”

Di fronte al rischio di esclusione, il presidente israeliano Isaac Herzog si era già mosso dietro le quinte nei mesi scorsi, facendo sentire il suo peso diplomatico sul dossier Eurovision. Dopo il via libera di Ginevra, il capo dello Stato ha espresso pubblicamente soddisfazione, ringraziando i Paesi che hanno sostenuto il diritto di Israele a gareggiare.

Herzog ha ribadito l’idea che la presenza israeliana all’Eurovision sia una forma di resistenza alla “delegittimazione” internazionale e un modo per mostrare un volto diverso rispetto alle immagini di guerra che arrivano da Gaza. La partecipazione al contest viene presentata come un tassello della strategia di “soft power” culturale, accanto alle tournée degli artisti e alle iniziative diplomatiche.

Sul fronte opposto, però, associazioni per i diritti umani e movimenti pro-Palestina in vari Paesi europei accusano l’Eurovision di contribuire al “whitewashing” dell’immagine di Israele, offrendo un palcoscenico globale mentre i bombardamenti su Gaza e le restrizioni al territorio continuano a suscitare condanne da parte di Nazioni Unite e ong.

Il fronte dei “forse”: chi potrebbe aggiungersi al boicottaggio

L’effetto domino è il vero incubo dell’Ebu. Alcuni broadcaster di altri Paesi del Nord Europa e dell’area baltica hanno espresso forte disagio per la decisione su Israele e hanno chiesto chiarimenti sulle nuove misure di trasparenza del voto. Tra questi, emittenti di Paesi come Islanda, Finlandia, Belgio e Svezia hanno lasciato intendere di non escludere alcuna opzione, compresa quella di fermarsi alla linea di partenza.

Al momento non ci sono altre rinunce ufficiali, ma il dossier resta aperto. Da una parte, diversi broadcaster sostengono la decisione dell’Ebu e difendono il principio secondo cui il concorso non può trasformarsi in un tribunale internazionale. Tra questi figurano, ad esempio, emittenti di Paesi come Germania, Regno Unito e Austria, Paese ospitante, che insistono sulla necessità di salvare l’unità del format.

Dall’altra parte, il blocco dei Paesi che si sono sfilati spera di mettere sotto pressione l’Ebu proprio mostrando che l’emorragia di partecipanti è possibile. Se al quartetto Spagna–Irlanda–Olanda–Slovenia dovessero aggiungersi altri nomi, Vienna 2026 rischierebbe di andare in scena con una line-up significativamente ridotta.

Gaza, opinione pubblica e la politicizzazione del contest

Il conflitto tra Israele e Hamas è lo sfondo che rende esplosiva ogni scelta su Eurovision. Secondo i dati diffusi dalle autorità sanitarie di Gaza e ripresi da numerose testate internazionali, il numero delle vittime nel territorio ha superato quota decine di migliaia di morti, con un impatto devastante su civili, infrastrutture e sistema sanitario.

In questo contesto, le campagne per escludere Israele dall’Eurovision si sono intensificate negli ultimi due anni: petizioni, appelli di artisti, manifestazioni di piazza alle porte delle arene che ospitavano il contest. Già nel 2024, il brano israeliano era finito al centro di polemiche per i riferimenti percepiti come politici nei testi, poi ammorbiditi per rientrare nelle regole.

L’Ebu ripete che il concorso è un evento musicale e non un’arena geopolitica, ma i fatti raccontano un’altra storia: la Russia è stata esclusa dal 2022 in seguito all’invasione dell’Ucraina; altri Paesi hanno minacciato ritiro in passato su questioni di diritti civili, libertà di stampa, discriminazioni. La linea di confine tra musica e politica è sempre più sottile, e il caso Israele–Gaza la rende praticamente invisibile.

Vienna 2026 tra festa e crisi di identità

Sul palco dell’arena di Vienna, a maggio, vedremo comunque i colori e le bandiere di decine di Paesi, i cori da stadio del pubblico, il rituale infinito dell’assegnazione dei punti. Ma questa volta la domanda di fondo sarà impossibile da ignorare: che cosa rappresenta oggi l’Eurovision?

Per alcuni governi è uno strumento delicato di immagine internazionale, per i movimenti della società civile diventa un terreno di protesta, per gli artisti è spesso un trampolino decisivo. Nel mezzo, l’Ebu prova a tenere insieme tutto: la necessità di difendere lo show, i conti economici, i diritti di trasmissione, le pressioni degli sponsor, le richieste sempre più esigenti di un pubblico globale.

Il boicottaggio di Spagna, Irlanda, Olanda e Slovenia è un segnale chiarissimo: la retorica della “neutralità” non basta più. Se e come l’Ebu saprà rispondere, lo diranno i prossimi mesi. Intanto, Vienna 2026 parte già con un’ombra lunga sul palco delle luci colorate.

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