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Italia a crescita zero, deficit al limite: la sfida con Bruxelles

- di: Bruno Legni
 
Italia a crescita zero, deficit al limite: la sfida con Bruxelles
Italia a crescita zero, deficit al limite: la sfida con Bruxelles
L’Ue promuove la zona euro ma boccia la velocità di Roma: Pil al 0,4% nel 2025, molto basso se si tiene conto che l'Italia gode della spinta del Recovery Fund europeo, che altri Paesi non hanno o hanno in misura molto ridotta. Debito oltre il 136% e partita aperta sulla procedura per deficit eccessivo.

Un’Europa che corre piano, un’Italia che quasi si ferma nonostante il Recovery Fund

La nuova fotografia d’autunno della Commissione europea è un paradosso solo apparente: l’Unione nel suo complesso regge meglio del previsto, ma l’Italia resta indietro, nonostante goda di forti vantaggi per il Recovery Fund europeo. Per Bruxelles, nel 2025 il Pil della Ue salirà di circa 1,4% e quello dell’area euro di 1,3%, con un’inflazione ormai vicina al 2%. L’Italia, invece, si ferma a un magro +0,4%, per poi risalire solo al +0,8% nel 2026 e nel 2027, posizionandosi stabilmente in coda alla classifica europea.

In altre parole, mentre il resto del continente ritrova una crescita moderata ma diffusa, Roma procede a passo di lumaca. Un rallentamento che pesa doppiamente perché arriva proprio mentre il Paese prova a rientrare nei binari del Patto di stabilità e a chiudere la procedura per deficit eccessivo.

Pil allo 0,4%: cosa c’è dietro la stima di Bruxelles

Nel dettaglio, le previsioni d’autunno indicano per l’Italia una crescita quasi piatta nel 2025, con un Pil che avanza dello 0,4% dopo la stagnazione di quest’anno. La Commissione descrive un’economia sostenuta soprattutto dalla domanda interna: i consumi delle famiglie restano positivi ma frenati da un risparmio precauzionale ancora elevato, mentre la vera spinta arriva dagli investimenti, in larga parte alimentati dai progetti finanziati dal dispositivo europeo per la ripresa e la resilienza.

Gli investimenti pubblici e quelli in costruzioni non residenziali legati al Pnrr sono considerati il motore principale dell’espansione. Al contrario, il contributo del commercio estero è negativo: le esportazioni di beni rallentano, i servizi tengono meglio, ma le importazioni crescono di più, sottraendo punti di crescita al Pil.

In questo scenario, la produttività resta il tallone d’Achille. L’occupazione continua a salire, ma più velocemente del prodotto: la produttività per addetto scende ancora nel 2025 per poi recuperare solo gradualmente. Il risultato è un Paese che lavora di più ma non cresce abbastanza, mentre altre economie europee sfruttano meglio la ripresa degli investimenti e il calo dell’inflazione.

Deficit al 3%: la soglia che decide il futuro della procedura

Se la crescita è debole, il capitolo deficit è quello che più interessa i palazzi di Roma e Bruxelles. La Commissione stima per l’Italia un rapporto deficit/Pil attorno al 3% nel 2025, in sostanziale allineamento con le cifre inserite dal governo nella nota di aggiornamento e nel Documento programmatico di bilancio.

Il messaggio che arriva dalla conferenza stampa di Bruxelles è chiaro: la chiusura della procedura per deficit eccessivo non è automatica, ma è a portata di mano se i numeri saranno rispettati. Il vicepresidente esecutivo per l’Economia Valdis Dombrovskis ha ricordato che serviranno i dati ufficiali di Eurostat nella primavera del 2026. Solo allora il collegio potrà decidere se archiviare il dossier italiano.

Secondo quanto spiegato dallo stesso Dombrovskis, per voltare pagina servirà un deficit “stabilmente sotto il 3%” e una traiettoria dei conti coerente con le nuove regole fiscali europee. In sostanza, non basta sfiorare la soglia: il rientro deve apparire credibile nel medio periodo, senza scivolare di nuovo oltre il limite non appena la congiuntura peggiora.

Da Roma, il governo ha più volte rivendicato l’obiettivo di mantenere il disavanzo al 3% nel 2025, per poi farlo scendere sotto la soglia dal 2026, insistere sulla “responsabilità” dei conti e, al tempo stesso, rivendicare margini per sostenere le famiglie e le imprese colpite dai dazi e dalle tensioni geopolitiche. In pubblico, il ministro dell’Economia ha lasciato intendere che un calo già nel 2025 “un po’ sotto” il 3% non è escluso, se le entrate fiscali e la crescita dovessero sorprendere in positivo.

Il nodo tecnico: cosa vuol dire davvero “sotto il 3%”

A complicare il quadro c’è un dettaglio tutt’altro che marginale della nuova governance economica: la definizione operativa di “deficit sotto il 3%”. La Commissione sta ancora elaborando le linee guida su come trattare i casi al limite, per esempio un disavanzo al 2,99% del Pil, tenendo conto degli arrotondamenti statistici.

Dietro la formula tecnica si nasconde una questione politica cruciale, soprattutto per l’Italia. Se la procedura venisse chiusa, Roma potrebbe chiedere in futuro le deroghe previste dal Patto di stabilità per alcune spese considerate prioritarie, come quelle per la difesa e la sicurezza comune europea. Se invece la procedura restasse aperta, la pressione su bilancio e manovre aumenterebbe, riducendo gli spazi per politiche espansive.

Non a caso, a Bruxelles la discussione interna verte anche su quanto margine concedere ai Paesi che stanno rientrando lentamente ma in modo credibile, e su come distinguere le spese “buone” – per investimenti e transizioni – da quelle correnti. L’Italia osserva il dibattito con particolare interesse, perché da quella interpretazione dipenderà quanta flessibilità potrà rivendicare nei prossimi anni.

Debito oltre il 136%: un sentiero strettissimo

Se il deficit è il numero che decide la procedura, il debito pubblico è quello che misura la fragilità di lungo periodo. Nelle previsioni della Commissione, il rapporto debito/Pil italiano si colloca intorno al 136,4% nel 2025, sale fino a circa 137,9% nel 2026 e solo nel 2027 torna a scendere lievemente, restando però ben oltre il 130%.

Con questi numeri, tra due anni l’Italia resterà nel ristrettissimo gruppo di Stati membri con un debito superiore al 100% del Pil, insieme a economie come Grecia, Francia e Belgio. Il confronto con Parigi è significativo: anche la Francia ha un debito elevato e un deficit sopra i parametri, ma può contare, secondo le proiezioni europee, su una crescita tendenzialmente più robusta e su un profilo di aggiustamento fiscale diverso.

Per l’Italia il problema è duplice: un debito molto alto e una crescita molto bassa. Questo significa che basta poco – un rallentamento congiunturale, tensioni sui mercati, un aumento dei tassi o nuovi dazi – per invertire di nuovo la rotta e far salire il rapporto debito/Pil invece di ridurlo. È il motivo per cui Bruxelles insiste su un controllo rigoroso della spesa corrente e su riforme strutturali in grado di alzare la crescita potenziale.

Perché l’Italia cresce meno della Ue

La domanda di fondo è semplice e scomoda: perché, a parità di contesto internazionale, l’Italia cresce molto meno del resto d’Europa? Le analisi della Commissione e di altri centri di ricerca convergono su alcuni fattori strutturali.

Il primo è la produttività, stagnante da anni. Il tessuto produttivo è ancora frammentato, con una forte presenza di piccole e piccolissime imprese che faticano a investire in innovazione, digitale e competenze. La transizione verde e quella tecnologica richiedono capitali, dimensioni e capacità manageriali che non tutte le aziende possiedono.

Il secondo fattore è demografico: una popolazione che invecchia rapidamente e un tasso di partecipazione al mercato del lavoro ancora basso, soprattutto tra donne e giovani. Questo limita il potenziale di crescita, riduce la base imponibile e rende più difficile sostenere nel tempo un welfare costoso.

Il terzo riguarda la qualità della spesa pubblica e la lentezza delle riforme. Negli ultimi anni sono stati avviati interventi su giustizia, concorrenza e pubblica amministrazione, ma spesso l’attuazione è parziale o diluita nel tempo. Il risultato è che i benefici sulla crescita faticano a materializzarsi con la velocità necessaria.

Pnrr, investimenti e il ruolo dei fondi europei

Nelle previsioni di Bruxelles il Pnrr resta uno degli elementi chiave per spiegare la crescita italiana, seppure modesta. I fondi europei del piano di ripresa finanziano soprattutto infrastrutture, digitalizzazione, transizione energetica e interventi sul capitale umano. La Commissione si aspetta che, nel triennio 2025-2027, l’effetto di questi investimenti continui a sostenere il Pil e a compensare in parte la debolezza del commercio estero.

Ma questa è anche una delle principali incognite. I ritardi nei cantieri, la complessità delle procedure e le tensioni tra governo centrale ed enti locali possono ridurre l’impatto effettivo dei progetti. Nei documenti tecnici europei si sottolinea che l’esecuzione del Pnrr dovrà essere “piena e tempestiva” per evitare che una parte delle risorse resti inutilizzata o produca effetti troppo diluiti nel tempo.

In più, dopo il 2026 l’ombrello del piano europeo si chiuderà gradualmente. Per continuare a investire, l’Italia dovrà fare sempre più affidamento su risorse nazionali e su un bilancio pubblico che, proprio in quegli anni, sarà chiamato a ridurre il deficit. Un’ulteriore ragione per cui Bruxelles insiste su un uso selettivo e mirato della spesa, concentrato su ciò che aumenta la produttività e la crescita potenziale.

La prospettiva di mercati e istituzioni italiane

Il quadro disegnato dalla Commissione non è l’unico disponibile. Le previsioni di istituzioni italiane come Istat e Banca d’Italia indicano, per il 2025, una crescita leggermente più alta – intorno allo 0,5-0,6% – ma comunque lontana dai ritmi europei e insufficiente a ridurre rapidamente il peso del debito. Anche diversi centri studi privati condividono l’idea di una ripresa lenta e fragile, altamente esposta ai rischi esterni.

La differenza principale rispetto a Bruxelles riguarda spesso le ipotesi su commercio estero, investimenti e impatto delle politiche nazionali. Ma nessuna previsione ribalta il quadro di fondo: l’Italia è vista ovunque come uno dei Paesi a più bassa crescita dell’Unione nei prossimi anni.

I mercati, finora, hanno mostrato una certa fiducia, anche grazie alla politica monetaria meno restrittiva e alla caccia globale ai rendimenti. Tuttavia, la combinazione di alto debito, crescita fiacca e forte esposizione alle tensioni commerciali – dai dazi americani alle incertezze sulla Cina – rende il Paese vulnerabile a shock improvvisi.

Cosa rischia l’Italia e quali leve ha ancora

Se la crescita dovesse rivelarsi ancora più bassa delle attese europee, o se il deficit non scendesse davvero sotto il 3%, l’Italia rischierebbe un doppio colpo: da un lato una procedura per deficit eccessivo più lunga e stringente, dall’altro una pressione maggiore da parte dei mercati, con possibili rialzi dei tassi sui titoli di Stato.

Per evitarlo, il governo ha davanti a sé un percorso stretto ma non impossibile. Sul piano di bilancio, la priorità è spostare risorse dalla spesa corrente improduttiva agli investimenti e alle politiche per lavoro, produttività e innovazione. Sul piano delle riforme, la sfida è portare a compimento gli impegni presi con Bruxelles su giustizia, concorrenza, pubblica amministrazione, fisco e mercato del lavoro.

La partita si gioca anche in Europa. Roma punta a valorizzare il proprio contributo alle grandi agende comuni – sicurezza, difesa, transizione energetica, competitività industriale – per ottenere margini di flessibilità all’interno delle nuove regole. Ma, come ripetono da tempo nei corridoi della Commissione, la credibilità si misura sui numeri: un debito che scende davvero e un deficit che resta stabilmente sotto il 3%.

In definitiva, le previsioni d’autunno lasciano l’Italia a un bivio. Da un lato, la possibilità di dimostrare che, nonostante crescita debole e debito elevato, il Paese è capace di tenere in ordine i conti e di usare bene i fondi europei. Dall’altro, il rischio di restare prigionieri di un sentiero di bassa crescita e alto indebitamento che rende ogni crisi più pericolosa. La prossima primavera, con i dati certificati da Eurostat, dirà quale delle due strade sarà imboccata davvero.

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