Minacce incrociate, licenze sull’export e tasse ai porti: lo scontro si allarga ma i canali di dialogo restano aperti.
La competizione tra Washington e Pechino entra in una fase più tesa. Da una parte la promessa americana di dazi fino al 100% su un ampio spettro di prodotti cinesi; dall’altra la stretta di Pechino su terre rare e tecnologie correlate, insieme a nuove tasse portuali speciali per le navi riconducibili a interessi statunitensi. È un braccio di ferro che tocca tecnologia, logistica e mercati, e che costringe governi e imprese a ripensare catene di fornitura e investimenti.
La posizione ufficiale cinese resta duplice: fermezza e apertura al negoziato. Come ha rimarcato un portavoce del ministero del Commercio, “se volete combattere, combatteremo fino alla fine; se volete negoziare, la nostra porta rimane aperta”. Dal lato Usa, la linea è di massima pressione senza chiudere i canali: il Tesoro assicura contatti operativi per evitare una spirale fuori controllo; secondo il segretario Scott Bessent, un faccia a faccia di alto livello è ancora in preparazione: “siamo sulla buona strada e abbiamo sostanzialmente allentato la tensione”.
Cosa cambia con le terre rare
Le nuove regole di Pechino introducono controlli più stringenti sull’export di terre rare e sui processi legati alla loro trasformazione. Non è un blocco totale: le richieste conformi possono ottenere licenze, ma la procedura diventa più selettiva e, per molti operatori, più onerosa. L’impatto riguarda l’intera filiera di magneti, batterie, turbine e semiconduttori, con possibile riallineamento di contratti e scorte a livello globale.
Tasse ai porti e logistica sotto pressione
In parallelo, entra in vigore un regime di tasse portuali speciali per le navi di proprietà o gestione statunitense, incluse quelle con partecipazione Usa significativa. La tariffazione parte da circa 400 yuan per tonnellata netta e prevede aumenti graduali fino a una soglia più elevata nei prossimi anni. La mossa amplia lo scontro al nodo cruciale della logistica marittima, con possibili effetti su rotte, tempi e costi di trasporto.
La risposta americana
La Casa Bianca minaccia dazi generalizzati al 100% sui beni “made in China”, oltre a possibili restrizioni tecnologiche aggiuntive. L’obiettivo è colpire i margini dell’industria cinese in settori come elettronica, componentistica, macchinari e automotive, forzando un tavolo negoziale su basi più favorevoli. Il rovescio della medaglia è un rischio di inflazione da costi e di frenata degli investimenti, in un quadro di volatilità crescente.
Imprese tra rischio e resilienza
Per il mondo produttivo, il nuovo contesto richiede piani di risk management più sofisticati: mappatura dei fornitori a monte, diversificazione geografica, scorte dinamiche, clausole contrattuali di salvaguardia, “fabbriche gemelle” in più aree e una governance dei dati capace di reagire a shock regolatori. Le aziende più esposte su materie critiche e componenti avanzati dovranno anticipare colli di bottiglia e possibili rialzi dei prezzi.
Tre scenari sul tavolo
Escalation piena. Dazi estesi, barriere agli investimenti e ulteriori controlli su tecnologie chiave. Conseguenze: crescita più debole, supply chain spezzate, prezzi in salita.
Tregua tattica. Accordi parziali su licenze, tempi di applicazione e liste tariffarie, con un temporaneo raffreddamento dei mercati ma senza soluzione strutturale del conflitto.
Guerra tecnologica silenziosa. Meno clamore sui dazi, più misure mirate su componenti, software e standard industriali: effetti lenti ma persistenti sull’innovazione e sugli scambi.
La finestra politica
Le prossime settimane sono decisive. La minaccia di nuove tariffe e la stretta sulle materie critiche coincidono con appuntamenti diplomatici sensibili. Il bivio è chiaro: compromesso e stabilizzazione, oppure una nuova stagione di frammentazione economica. In ogni caso, per governi e imprese la parola d’ordine è prepararsi adesso.