(Foto: soldati della Guardia Nazionale in marcia a Washington).
Alla vigilia del Thanksgiving, il centro di Washington si è trasformato in scena di guerra. Intorno alle 14.15 ora locale, circa le 20.15 in Italia, due membri della Guardia nazionale della West Virginia sono stati colpiti da numerosi colpi d’arma da fuoco a due isolati dalla Casa Bianca, nei pressi dell’incrocio tra 17th Street e I Street, una zona affollata di uffici, hotel e turisti. Le autorità parlano di attacco mirato, un agguato in piena regola contro i militari dispiegati da Donald Trump per presidiare la capitale nell’ambito della sua campagna contro il crimine. Secondo le ricostruzioni pubblicate il 26 novembre da quotidiani come il Washington Post e da agenzie internazionali, i due soldati sono ricoverati in condizioni critiche, mentre l’aggressore è stato ferito e arrestato sul posto.
L’agguato in pieno giorno nel cuore di Washington
La dinamica, descritta dal comando della polizia di Washington in una conferenza stampa e ripresa dalla stampa statunitense nella serata del 26 novembre, è netta. Il responsabile sarebbe arrivato a piedi, con calma, in una zona dove i militari stavano effettuando quelle che il Dipartimento di polizia metropolitana definisce “high visibility patrols”, pattuglie a visibilità elevata. Il funzionario di vertice del corpo, Jeffery Carroll, ha spiegato che il sospetto è apparso dietro l’angolo di un edificio, ha alzato la pistola e ha aperto il fuoco quasi a bruciapelo contro i due soldati.
Carroll ha descritto la scena come un’imboscata: “Dalle immagini video che abbiamo visionato si vede un unico individuo che alza l’arma e tende un agguato ai membri della Guardia nazionale”, ha detto ai giornalisti. Almeno tra i 10 e i 15 colpi sarebbero stati esplosi in pochi secondi. Uno dei militari, secondo le fonti citate da Associated Press il 26 novembre, avrebbe provato a cercare riparo dietro la pensilina della fermata dell’autobus, venendo comunque colpito alla testa. Altri soldati, che si trovavano nelle vicinanze, hanno reagito, sparando a loro volta e immobilizzando il sospettato fino all’arrivo degli agenti e dei soccorsi.
Due soldati in condizioni critiche e un caos di notizie
Le condizioni dei due militari sono state a lungo avvolte dalla confusione. Il governatore della West Virginia, Patrick Morrisey, ha inizialmente annunciato la loro morte in un messaggio, salvo poi correggersi poco dopo parlando di “informazioni contrastanti” in arrivo dagli ospedali. Solo la conferenza stampa serale delle autorità federali ha fatto chiarezza: entrambi i membri della Guardia nazionale sono vivi ma in condizioni critiche, ricoverati in due diversi ospedali della capitale. A confermarlo, secondo quanto riportato da media statunitensi e dall’agenzia AP nella tarda serata del 26 novembre, è stato il vertice dell’Fbi, che ha invitato alla prudenza sul fronte delle ricostruzioni e del movente.
La sindaca di Washington, Muriel Bowser, ha definito la sparatoria “un attacco mirato contro militari in uniforme che stavano pattugliando la nostra città”. Alla domanda se il fatto dimostrasse la necessità di avere ancora più soldati nelle strade, Bowser ha risposto con cautela, ribadendo la collaborazione con le forze federali ma ricordando che la città vive da mesi in una condizione eccezionale, con migliaia di uomini della Guardia nazionale presenti in quartieri turistici e residenziali.
Chi è il sospetto: il dossier sul 29enne afghano
Nel corso delle ore successive è emersa l’identità del presunto aggressore. Fonti investigative citate dal Washington Post e da network televisivi statunitensi il 26 novembre hanno indicato come sospetto principale Rahmanullah Lakanwal, 29 anni, cittadino afghano. Secondo questi resoconti, il giovane sarebbe arrivato negli Stati Uniti nel 2021 nell’ambito di Operation Allies Welcome, il programma di evacuazione e ricollocamento degli afghani che avevano collaborato con le forze occidentali dopo il ritiro da Kabul.
Il suo percorso amministrativo, ricostruito da documenti di immigrazione citati dai media, sarebbe complesso: ingresso regolare nel 2021, domanda di asilo nel 2024, status riconosciuto nella primavera 2025. Negli ultimi mesi, Lakanwal avrebbe vissuto nello Stato di Washington, sulla costa del Pacifico, prima di spostarsi di nuovo verso la East Coast. Al momento, però, né l’Fbi né il Dipartimento per la sicurezza interna hanno indicato un movente preciso. L’inchiesta, hanno sottolineato gli inquirenti, è ancora alle fasi iniziali e il sospettato non sta collaborando con gli investigatori.
La città blindata e il carico politico della Guardia nazionale
La sparatoria arriva in una capitale già fortemente militarizzata. Dall’agosto 2025, su ordine di Donald Trump, oltre duemila soldati della Guardia nazionale pattugliano le vie di Washington, ufficialmente per contrastare l’aumento della criminalità. Una decisione che ha scatenato un braccio di ferro legale: una giudice federale ha stabilito che il dispiegamento è probabilmente illegittimo, perché deciso senza una richiesta formale delle autorità locali, ma ha sospeso l’esecutività della sentenza per alcune settimane per consentire al governo di presentare ricorso.
I residenti della capitale si sono abituati a vedere camion militari, giubbotti antiproiettile e fucili d’assalto nel raggio di pochi isolati dalla Casa Bianca e dal Campidoglio. Una parte dell’opinione pubblica apprezza la presenza dei soldati, li ringrazia per il servizio e scatta selfie con loro. Un’altra parte, come raccontano inchieste giornalistiche e testimonianze raccolte sul campo, vive la situazione come una normalizzazione dello stato d’eccezione: i militari sono percepiti come il volto visibile di una stretta sull’immigrazione e sull’ordine pubblico che rende più fragili i diritti civili, soprattutto per le comunità più esposte.
Trump cavalca il dramma per far salire la tensione ancora di più: parole di fuoco, 500 soldati in più e la crociata sui migranti
Poche ore dopo l’attacco, il presidente Trump è intervenuto con un messaggio sui social dalla residenza di Mar-a-Lago, in Florida, dove si trova per il weekend del Ringraziamento. Secondo la trascrizione del suo post, rilanciata dai media americani nella serata del 26 novembre, il capo della Casa Bianca ha definito il sospetto “un animale” e ha promesso che “pagherà un prezzo altissimo”. Nel messaggio ha aggiunto: “Dio benedica la nostra grande Guardia nazionale, tutte le nostre forze armate e le forze dell’ordine. Sono persone straordinarie e io sono con loro”. Insomma, il solito Trump: cavalcare il dramma per far salire la tensione ancora di più, polarizzare al massimo, distrarre da quello che gli americano gli imputano, stando ai sondaggi, sull'andamento dell'economia.
Non solo. Nelle ore successive, Trump ha trasformato il caso in un nuovo capitolo della sua campagna contro l’immigrazione, puntando il dito contro l’intera comunità afghana arrivata negli Stati Uniti dopo il ritiro da Kabul. In un intervento video, riportato da diverse testate il 26 novembre, il presidente ha annunciato la volontà di rivedere uno per uno i dossier degli afghani entrati con l’operazione di evacuazione, definendo le procedure di selezione dell’epoca “un disastro ereditato dalle scelte del passato”. Ha anche sostenuto che le politiche di accoglienza rappresenterebbero oggi “la principale minaccia alla sicurezza nazionale”.
In parallelo, il segretario alla Difesa Pete Hegseth ha comunicato di aver ricevuto dal presidente l’ordine di inviare altri 500 membri della Guardia nazionale a Washington. L’annuncio è arrivato mentre Hegseth si trovava all’estero, e ha immediatamente riacceso le polemiche: la decisione, hanno fatto notare diversi osservatori, arriva a pochi giorni dalla sentenza della giudice federale che ha messo in dubbio la legittimità dell’intero dispiegamento. Il messaggio politico è chiaro: l’amministrazione trasforma l’attacco a due soldati in un argomento a favore di una presenza militare ancora più massiccia nella capitale, mettendo in secondo piano il contenzioso istituzionale.
Noem, Bondi, Bowser: il coro istituzionale tra preghiere e condanne
La segretaria per la Sicurezza interna, Kristi Noem, ha diffuso un comunicato nel pomeriggio del 26 novembre in cui ha chiesto di pregare per i due militari feriti. “Unitevi a me nel pregare per i due membri della Guardia nazionale appena colpiti a Washington”, ha scritto, precisando che il suo dipartimento è al lavoro con le forze locali per raccogliere tutte le informazioni. La procuratrice generale, Pam Bondi, ha parlato sui social di “sparatoria terribile” e ha promesso che gli autori – nel caso si rivelassero coinvolte altre persone oltre al sospettato – saranno perseguiti con la massima severità.
Anche i vertici del Dipartimento di Giustizia e dell’Fbi hanno diffuso note di condanna. Il direttore dell’Fbi ha ringraziato i militari che sono intervenuti subito dopo gli spari, sottolineando che il loro intervento rapido ha evitato un bilancio di vittime ancora più pesante. A livello locale, il procuratore generale del District of Columbia ha ricordato che la Guardia nazionale è composta da volontari che lasciano lavoro e famiglia per prestare servizio, definendo la giornata “un giorno straziante per Washington e per il Paese”.
Una capitale che vive tra paura e normalizzazione della violenza
La sparatoria del 26 novembre si inserisce in un contesto in cui, come ricordano i dati ufficiali, gli attacchi contro le forze dell’ordine sono in crescita. Il rapporto dell’Fbi sui poliziotti uccisi e aggrediti in servizio ha indicato nel 2023 il record di oltre 79.000 aggressioni a operatori di polizia, il livello più alto dell’ultimo decennio. E un’analisi successiva, diffusa nell’agosto 2025, ha segnalato un’ulteriore crescita delle aggressioni nel 2024, con più di 85.000 episodi segnalati. In parallelo, un comunicato del Dipartimento per la sicurezza interna del 15 luglio 2025 ha parlato di un aumento a tre cifre delle aggressioni contro gli agenti dell’immigrazione.
Numeri che la Casa Bianca utilizza per giustificare la linea dura. Ma studi indipendenti e riletture critiche dei dati hanno messo in discussione i toni allarmistici del governo, mostrando come, pur in presenza di un incremento, le cifre non corrispondano sempre alle percentuali a effetto sbandierate nei comunicati ufficiali. In altre parole: la violenza contro le forze dell’ordine è un problema reale, ma rischia di essere piegata a una narrazione che lega in modo automatico immigrazione, criminalità e terrorismo interno, soprattutto quando gli aggressori hanno un passato migratorio.
La linea sottile tra sicurezza e campagna permanente
L’episodio di Washington arriva esattamente su questa linea di frattura. Da una parte due soldati in fin di vita, uno Stato – la West Virginia – che piange i suoi uomini e un’opinione pubblica che si interroga su come sia stato possibile un agguato del genere a pochi metri dalla Casa Bianca. Dall’altra parte una macchina politica che, nel giro di poche ore, converte la tragedia in un argomento di campagna permanente: più militari nelle strade, più controlli sugli immigrati, più poteri al governo federale nella gestione dell’ordine pubblico.
La domanda che attraversa Washington, mentre i residenti si preparano a un Thanksgiving segnato dalle sirene e dai posti di blocco, è semplice e inquietante: questo modello di sicurezza rende davvero la città più sicura o alimenta una spirale in cui la presenza costante di militari e forze federali diventa parte del problema, non della soluzione? L’ambiguità è tutta nelle immagini di queste ore: da un lato le pattuglie che hanno fermato il “lone gunman” prima che colpisse altre persone, dall’altro una città che vive da mesi sotto un’inedita occupazione in uniforme, e che ora rischia di vederla ulteriormente rafforzata.
Per i due membri della Guardia nazionale feriti, la battaglia è ora nelle corsie d’ospedale. Per Washington, la battaglia è politica e culturale: decidere se reagire alla violenza con un nuovo strato di emergenza permanente, o se provare a immaginare un equilibrio diverso tra sicurezza, diritti e verità dei numeri.