A Padova non hanno fatto un minuto di silenzio. Hanno fatto un minuto di rumore. Per Giulia, e per tutte. Un rumore che somiglia a un cuore che non si rassegna, al passo di chi dice “basta” ma non vuole sussurrarlo.
Due anni senza Giulia Cecchettin. L’amore non è un delitto, ma il modo in cui lo raccontiamo sì
A due anni dall’omicidio di Giulia Cecchettin, quel rumore è una risposta a un Paese che ancora chiama “amore” ciò che amore non è, e che ancora si commuove per i colpevoli invece di cambiare per le vittime.
E nel frattempo, la voce del padre, Gino Cecchettin, torna a scuotere la nostra ipocrisia collettiva: “L’educazione affettiva non è un pericolo.”
Semplice. Logico. Disarmante. Eppure, ancora troppo scomodo per un’Italia che continua a confondere il sentimento con il possesso, la gelosia con la passione, la violenza con il destino.
L’amore insegnato male
C’è un errore di fondo che comincia presto — nei film, nelle canzoni, nei romanzi e nei titoli dei giornali. È l’idea romantica dell’amore come malattia, come travolgimento che giustifica tutto. Si cresce credendo che se un uomo è ossessivo, geloso, furioso, allora “ci tiene davvero”. Si applaude la passione, si accetta il controllo, si scambia la dipendenza per dedizione.
E poi, quando la cronaca restituisce il finale tragico, si parla di “amore finito male”.
No: è finito nel sangue, non nell’amore.
Giulia è stata uccisa non da un innamorato, ma da un ragazzo cresciuto dentro un’educazione sentimentale distorta, dove amare significa possedere, e perdere significa punire.
Le parole che tradiscono
Natalia Aspesi lo direbbe così: l’amore non è una fiaba, è un campo minato di parole sbagliate. Quando i media scrivono “delitto passionale”, “non accettava la fine della relazione”, “era troppo innamorato”, non fanno informazione — fanno poesia dell’assassino. Sfumano la violenza, attenuano la responsabilità, ricoprono il sangue con petali di retorica.
È un modo di raccontare che tradisce la verità: che in Italia ogni tre giorni una donna viene uccisa non da uno sconosciuto, ma da chi diceva di amarla.
E ogni volta che si usa la parola “amore” per descrivere la violenza, la si svuota di significato, la si contamina.
Educare all’amore, non al silenzio
“L’educazione affettiva non è un pericolo”, ha detto ancora Gino Cecchettin. Ma lo diventa — paradossalmente — in un Paese dove l’amore si insegna male e non si parla di desiderio, consenso, libertà.
Si lasciano i ragazzi soli a imparare l’amore dai social, dai video, dai miti tossici. Poi ci si scandalizza dei risultati: rapporti violenti, linguaggi di dominio, cultura del possesso.
L’educazione affettiva, invece, non toglie innocenza.
La restituisce.
Spiega che amare non è comandare, che dire “no” non è tradire, che chi ama non fa paura.
Per Giulia, per tutte
Il minuto di rumore di Padova è anche per questo. Per svegliare un Paese addormentato nella retorica dei sentimenti e incapace di riconoscere la banalità della violenza. Perché ogni volta che una donna viene uccisa da chi “non sopportava di perderla”, stiamo assistendo al fallimento di un’educazione intera, non solo di un individuo. E perché non bastano più le panchine rosse o le fiaccolate: serve una rivoluzione culturale che cominci da come parliamo, da come scriviamo, da come insegniamo.
Un minuto di rumore non basta a riportare Giulia, ma può servire a cambiare l’eco. A sostituire i sospiri con le domande, i silenzi con la consapevolezza. L’amore non uccide. A uccidere è l’idea sbagliata che ci hanno venduto dell’amore — quella che scambia il dominio per destino e il dolore per devozione.
Giulia non è morta per amore. È morta per colpa dell’amore raccontato male.