Tre anfore, 83 chili di spiccioli imperiali e un colpo di scena archeologico: a Senon, in Lorena, la banca era letteralmente sotto i piedi.
Il gesto semplice che diventa storia
Immagina di alzare una lastra del pavimento in salotto e trovare, non polvere e tubi,
ma tre anfore piene di monete romane. È quello che è successo a Senon (dipartimento della Meuse),
dove una fouille di archeologia preventiva ha riportato alla luce un intero pezzo di città antica.
A raccontarlo è l’Inrap, l’istituto francese che segue questo tipo di scavi legati ai lavori edilizi.
Il punto non è solo la quantità — oltre 40.000 monete — ma la scena: i contenitori erano
inseriti in una fossa e collocati quasi a livello del suolo, come se dovessero essere riaperti.
Traduzione moderna: non un “tesoro da film”, piuttosto una cassaforte domestica.
I numeri del ritrovamento
Le stime, basate su recuperi e pesature, parlano di un totale attorno agli 83 chili.
Secondo quanto riferito dal numismatico Vincent Geneviève (Inrap) in dichiarazioni riprese dalla stampa scientifica e divulgativa,
la prima anfora equivale a circa 23.000–24.000 monete (circa 38 kg di monete),
la seconda potrebbe arrivare a 18.000–19.000 (con il vaso e le monete attorno a 50 kg),
mentre la terza era stata quasi svuotata già in antico, lasciando solo pochissimi esemplari.
Un dettaglio fa sorridere e insieme convince: alcune monete sono state trovate
incastrate vicino all’esterno dei contenitori, segno che l’area restava accessibile prima che
i sedimenti “chiudessero” tutto. È l’archeologia che ti dice: qui si depositava e si prelevava.
Senon, una città celtica romanizzata
Senon non è un nome casuale: era una delle principali città dei Mediomatrici, popolazione gallica
il cui centro politico-amministrativo in età romana era a Metz (Divodurum), come ricorda l’Inrap nel resoconto dello scavo.
Nel quartiere emerso compaiono elementi da manuale di romanità urbana: spazi organizzati,
edilizia strutturata, e indizi di un abitato non povero.
Eppure, la storia locale ha anche capitoli duri: le fonti Inrap parlano di
incendi nel IV secolo che hanno colpito l’insediamento. La cosa interessante è che
le anfore sembrano precedere quei roghi: altro punto a favore dell’idea “gestione del denaro”
più che “nascondiglio dell’ultimo minuto”.
Che monete erano, e perché contano
La cronologia indicata dall’Inrap colloca il deposito tra la fine del III e l’inizio del IV secolo
(una finestra spesso indicata tra circa 280 e 310 d.C.). In quella fase l’economia imperiale vive
una lunga turbolenza: dopo decenni di instabilità, guerre e inflazione, la moneta spicciola
diventa ancora più centrale nella vita quotidiana.
La stampa specializzata ha evidenziato che nel lotto compaiono emissioni legate anche alla stagione
dell’Impero delle Gallie (la parentesi occidentale del potere romano nel III secolo), dettaglio che
aiuta a “leggere” circolazione e tempi di accumulo. In altre parole: non stiamo guardando soltanto
del bronzo antico, ma un diario economico scritto in metallo.
Perché non è “solo” un tesoro
Gli archeologi conoscono molti ripostigli monetali: in Francia, i depositi di monete non sono rarissimi.
Qui però la vera rarità è un’altra: il contesto. Sapere esattamente dove erano le anfore,
come erano posizionate e quanto erano “usabili” cambia l’interpretazione.
È il motivo per cui l’Inrap insiste sul valore scientifico della scoperta: la scena è quasi intatta,
e quindi parla.
E poi c’è la dimensione umana: una terza anfora quasi vuota suggerisce prelievi reali,
forse per pagare merci, tasse, salari, riparazioni. Non un colpo di panico,
ma la normalità di chi prova a mettere qualcosa da parte. Duemila anni dopo, stessa storia.
Cosa succede adesso: studio, restauro e proprietà
La partita ora si gioca in laboratorio: pulitura, catalogazione, studio numismatico e analisi del contesto.
Quanto alla domanda che tutti fanno — “di chi sono?” — in Francia la regola è chiara:
i beni archeologici mobili rinvenuti nel quadro di un’operazione archeologica sono
presunti di proprietà dello Stato secondo il Code du patrimoine (art. L541-4).
Quindi: niente “tesoro in tasca”, ma patrimonio pubblico e ricerca.