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Peter Arnett, la voce che portò la guerra nelle case del mondo

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Peter Arnett, la voce che portò la guerra nelle case del mondo
Con la morte di Peter Arnett se ne va uno degli ultimi grandi testimoni di un’epoca in cui il giornalismo di guerra era presenza fisica, rischio personale, sguardo diretto sugli eventi. Aveva 91 anni e il suo nome resterà per sempre legato alla Prima guerra del Golfo, quando da Baghdad raccontò in diretta i bombardamenti americani, trasformando il conflitto iracheno del 1991 nella prima guerra globale seguita in tempo reale.

Peter Arnett, la voce che portò la guerra nelle case del mondo

Quando iniziarono i raid dell’operazione Desert Storm, Arnett era lì. Non in un hotel sicuro oltreconfine, non al seguito di un comando militare, ma nella capitale irachena sotto le bombe. I suoi collegamenti per la Cnn, spesso notturni, con la voce calma e lo sguardo teso, mostrarono al mondo ciò che fino ad allora era rimasto ai margini dell’informazione: la guerra dal punto di vista di chi la subisce. Fu una frattura irreversibile nel modo di raccontare i conflitti. Da quel momento la guerra non sarebbe più stata solo comunicato militare o resoconto differito, ma esperienza condivisa in diretta.

Il giornalista scomodo


Arnett non è mai stato un cronista neutrale nel senso rassicurante del termine. Era un giornalista che stava sul campo e che raccontava ciò che vedeva, anche quando questo metteva a disagio governi, eserciti e opinioni pubbliche. Per questo fu accusato di fare il gioco della propaganda irachena, di essere “troppo dentro” la narrazione del regime di Saddam Hussein. Accuse che lo accompagnarono per tutta la carriera e che lui respinse sempre con una risposta semplice: raccontare non significa approvare, ma testimoniare.

Dal Vietnam all’Iraq, il filo rosso delle guerre americane

La sua storia professionale, del resto, era cominciata molto prima. Nel 1966 vinse il Premio Pulitzer per la copertura della guerra in Vietnam per l’Associated Press. Anche allora Arnett era stato tra i primi a mostrare il volto reale del conflitto, quello che contraddiceva le versioni ufficiali. I suoi reportage contribuirono a incrinare il consenso interno negli Stati Uniti, facendo emergere l’abisso tra la retorica politica e la realtà del campo di battaglia.

Vietnam e Iraq non sono solo due capitoli della sua carriera, ma due snodi della storia americana del Novecento: guerre combattute lontano, ma decisive per la coscienza dell’Occidente. Arnett fu lì in entrambi i casi, come un filo rosso che attraversa mezzo secolo di interventi militari e di illusioni di potenza.

La nascita della guerra mediatica

Con Arnett e la Cnn nasce anche un nuovo problema: la guerra come spettacolo globale. Le immagini di Baghdad sotto le bombe segnarono l’inizio di una stagione in cui il conflitto diventa evento mediatico continuo, con effetti ambigui. Da un lato maggiore consapevolezza, dall’altro il rischio di una narrazione semplificata, immediata, emotiva. Arnett non ignorava questa contraddizione, ma la viveva dall’interno, consapevole che l’alternativa sarebbe stata il silenzio.

Un mestiere che non esiste più

Neozelandese di nascita, americano d’adozione, Arnett apparteneva a una generazione di reporter che considerava il giornalismo una forma di presenza. Non c’erano social network, non c’erano dirette autoprodotte, non c’era la protezione dell’informazione a distanza. C’era il corpo del giornalista sul terreno, esposto agli stessi rischi della popolazione civile. Oggi quel modello sembra lontano, quasi archeologico.

Un’eredità irrisolta


Peter Arnett lascia un’eredità complessa, come tutte le figure che hanno attraversato i grandi conflitti del Novecento e dell’inizio del nuovo secolo. Non fu un eroe senza ombre, né un semplice cronista. Fu un testimone scomodo, spesso contestato, ma impossibile da ignorare. Con la sua morte si chiude un capitolo del giornalismo internazionale, quello in cui la guerra veniva raccontata da chi aveva scelto di non distogliere lo sguardo.

E forse, oggi più che mai, la sua lezione resta attuale: la verità dei conflitti è sempre parziale, fragile, contestata. Ma rinunciare a cercarla, sul campo, significa consegnarla interamente ai vincitori.
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