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Nuovo Tuf, Generali al 40% senza Opa? Ecco come

- di: Bruno Legni
 
Nuovo Tuf, Generali al 40% senza Opa? Ecco come
Nuovo Tuf, Generali al 40% senza Opa? Ecco come

La riforma sulle Opa accende lo scontro tra Palazzo Chigi, opposizioni, Procura di Milano e Consob, mentre sul Leone si ridisegnano gli equilibri di potere.

(Foto: la sede delle Assicurazioni Generali a Trieste).

La norma che può cambiare il potere su Generali

Il nuovo Testo unico della finanza non è un dossier per tecnici, ma un detonatore politico. Nel mirino c’è la riscrittura dell’articolo 106 sulle offerte pubbliche di acquisto e, soprattutto, la definizione di “persone che agiscono di concerto”. Un ritocco che, se approvato così com’è, potrebbe consentire agli attuali soci forti di Generali di consolidare il controllo fino a sfiorare il 40% senza dover lanciare un’Opa obbligatoria.

L’esame parlamentare del decreto delegato ha trasformato un tema apparentemente tecnico in un braccio di ferro sul modello di capitalismo italiano: contendibile o blindato, aperto a nuovi soggetti o cucito su pochi grandi centri di potere, spesso intrecciati con la politica.

Cosa cambia nel nuovo Tuf per Opa e concerto

Il progetto di riforma del Tuf punta a semplificare e uniformare le regole sulle Opa lungo tre assi: soglie, tempi e perimetro dei soggetti che devono essere considerati “in concerto”.

Sul fronte delle soglie l’intervento più visibile è l’introduzione di un livello unico al 30% del capitale o dei diritti di voto, oltre il quale scatta l’obbligo di Opa totalitaria. Viene così superato il doppio regime 25–30% che ha caratterizzato finora il diritto italiano.

Ma è la disciplina degli incrementi successivi a cambiare davvero il gioco: una volta superato il 30%, chi detiene quella partecipazione potrà crescere di un ulteriore 10% in dodici mesi senza dover lanciare una nuova Opa. Oggi, il margine è limitato al 5% annuo per non far scattare l’obbligo. Con il nuovo schema, un socio forte potrebbe passare dal 30 al 40% in un solo anno, anziché in due.

Sul piano del prezzo, viene inoltre ridotto da dodici a sei mesi l’orizzonte temporale da considerare per determinare il corrispettivo minimo dell’offerta obbligatoria: una scelta che rende il prezzo meno esposto a operazioni di lungo periodo, ma anche più sensibile alle fasi di volatilità estrema.

La partita più sensibile riguarda però la nozione di concerto tra azionisti. La norma in discussione attenua alcune presunzioni assolute oggi previste dal Tuf, trasformandole in presunzioni relative e aprendo la strada alla prova contraria. Inoltre elimina il riferimento alla mera finalità di mantenere il controllo – formula che, pur non essendo prevista dalla direttiva europea, in Italia ha avuto un ruolo chiave nelle valutazioni delle autorità di vigilanza.

Lo scontro politico: Misiani chiede lo stralcio, il governo tira dritto

Le opposizioni hanno colto subito la portata politica della riforma. Il responsabile economico del Partito democratico, Antonio Misiani, ha chiesto apertamente di cancellare la norma sul concerto, sostenendo che così com’è rischia di indebolire l’inchiesta della Procura di Milano sui rapporti tra Mps, Delfin (la holding lussemburghese della famiglia Del Vecchio) e il gruppo Caltagirone. L’accusa è netta: una norma che, di fatto, renderebbe più difficile dimostrare un’azione coordinata nella presa di controllo di Mediobanca e, per riflesso, del Leone.

Dal ministero dell’Economia e da Palazzo Chigi arriva una lettura diametralmente opposta: la riforma – sostengono – non è costruita su casi specifici, ma serve a modernizzare il mercato dei capitali, allineando il Tuf alle regole comunitarie e rendendo più attrattiva la piazza italiana per investitori internazionali.

Nelle aule parlamentari e nei retroscena politici, però, circola una domanda velenosa: se davvero esiste un concerto tra soci privati, chi ne sarebbe il “direttore d’orchestra”? Per una parte dell’opposizione, il podio va cercato non nelle sale operazioni delle banche d’affari, ma nelle stanze del governo. Un’accusa respinta con forza dalla maggioranza, che rivendica la “neutralità” della riforma rispetto ai singoli dossier societari.

Generali, il blocco oltre il 30% e il sentiero verso il 40%

Per capire perché il nuovo Tuf viene letto come una chiave potenziale per Generali, bisogna guardare alla mappa azionaria del Leone. In base alle ultime comunicazioni disponibili, i tre principali soci “forti” sono:

  • Mps, tramite Mediobanca, con circa il 13,19% del capitale;
  • il gruppo Del Vecchio/Delfin, con poco più del 10%;
  • il gruppo Caltagirone, con circa il 6,3%.

Sommando questi pacchetti si arriva a circa il 29,5% del capitale. Ma la percentuale “vera” in assemblea è più alta, perché Generali possiede azioni proprie pari a circa il 2,95%. Poiché questi titoli non votano, la base di calcolo effettiva scende al 97,05% del capitale, con il risultato che la partecipazione congiunta dei tre soci sale di fatto sopra il 30%.

È qui che entra in gioco il nuovo Tuf. Con un blocco già oltre la soglia del 30%, la riforma consentirebbe – se venisse accertato un concerto tra i tre soggetti – di accrescere la partecipazione di un ulteriore 10% in dodici mesi senza Opa obbligatoria. In teoria, in un solo anno si potrebbe salire poco sopra il 40%, assicurandosi un controllo di fatto stabile sull’assemblea, dove storicamente non si presenta quasi mai il 100% dei soci.

Anche lo scenario, oggi ritenuto molto remoto, di una salita oltre il 50% diventerebbe più rapido: due anni invece dei quattro necessari con il vecchio limite del 5% annuo. Un cambio di passo che ridisegna la geometria del potere nel Leone e, più in generale, nelle società quotate italiane con blocchi di controllo già formati.

Mediobanca e l’opa a cascata: perché non scatta l’obbligo sul Leone

Il ruolo di Mediobanca aggiunge un ulteriore livello di complessità. La quota di Generali riconducibile a Mps non nasce da acquisti diretti di azioni del Leone sul mercato, ma dall’operazione che ha portato l’istituto senese a conquistare il controllo di Piazzetta Cuccia.

In casi come questo entra in gioco la disciplina dell’Opa “a cascata”: chi lancia un’offerta su una società quotata deve verificare se, tramite quella partecipazione, non acquisisca indirettamente anche il controllo di altre società quotate. Nel caso Mediobanca–Generali, però, la legge prevede un ulteriore filtro: perché nasca l’obbligo di Opa sulla compagnia assicurativa, la partecipazione in Generali dovrebbe superare una certa soglia in rapporto agli attivi complessivi di Mediobanca.

Le valutazioni finora rese note indicano che tale soglia non è stata raggiunta, motivo per cui non si è verificata alcuna Opa obbligatoria su Generali. È la combinazione tra Opa a cascata, nuova disciplina sugli incrementi e possibile accertamento del concerto che rende il dossier così delicato agli occhi della Procura di Milano e delle autorità di vigilanza.

Procura di Milano e Consob, indagine a doppio binario

Sullo sfondo della riforma si muove l’inchiesta penale. La Procura di Milano indaga da mesi sulla costruzione delle partecipazioni in Mediobanca e sul ruolo di Mps, Delfin e del gruppo Caltagirone. Le ipotesi di reato ruotano attorno a manipolazione del mercato e ostacolo alla vigilanza, due fattispecie che in passato hanno segnato molte grandi partite del capitalismo italiano.

Nell’ambito di queste indagini, i pm hanno disposto anche acquisizioni di documenti e dispositivi elettronici, comprese le utenze telefoniche di figure apicali di Mediobanca, come il presidente Vittorio Grilli e l’amministratore delegato Alessandro Melzi d’Eril. Non risultano indagati, ma le comunicazioni potrebbero aiutare a ricostruire la rete di contatti e le dinamiche che hanno portato alla formazione degli assetti attuali.

Su un piano parallelo si muove la Consob, che in un documento tecnico reso noto nei mesi scorsi ha sostenuto di non aver ravvisato prove definitive di un “patto occulto” tra i grandi soci sulla vicenda Mps–Mediobanca–Generali. Una posizione che non chiude il fascicolo penale – i magistrati agiscono in autonomia – ma che introduce una frizione evidente tra vigilanza di mercato e magistratura inquirente.

È proprio in questo contesto che il dibattito sulla riforma del Tuf diventa esplosivo: cambiare oggi le regole sul concerto, mentre l’indagine è in pieno corso, viene letto da una parte politica come un messaggio implicito agli inquirenti e un possibile assist alle difese, pronte a utilizzare il nuovo quadro normativo nei futuri contenziosi.

Un test generale sul capitalismo italiano quotato

Il caso Generali–Mediobanca–Mps è diventato molto più di una vicenda societaria: è un test di sistema sul futuro del capitalismo italiano quotato. Da un lato ci sono quanti sostengono che il Paese abbia bisogno di regole più chiare, soglie certe e margini di manovra più ampi per le operazioni di mercato, se vuole competere con le altre piazze europee e attrarre capitali globali.

Dall’altro lato, una parte del mondo politico e finanziario teme che, in un contesto segnato da forti concentrazioni di potere, l’allentamento delle presunzioni di concerto e l’ampliamento degli acquisti incrementali senza Opa finiscano per blindare i gruppi esistenti, riducendo la contendibilità delle società e comprimendo i diritti dei piccoli azionisti.

Il Parlamento è chiamato a scegliere dove collocare l’asticella. Se prevarrà l’impostazione del governo, il nuovo Tuf potrebbe inaugurare una stagione di operazioni più rapide e meno visibili di rafforzamento dei blocchi di controllo, con Generali come caso emblematico. Se invece le modifiche saranno limate o stralciate, il messaggio ai mercati sarà quello di una maggiore cautela a tutela della trasparenza e della parità di trattamento tra i soci.

In ogni caso, la riforma dell’articolo 106 non resterà una nota a piè di pagina: deciderà quanto sarà facile, domani, costruire e conservare il potere nelle grandi quotate italiane senza passare dalla prova di verità di un’offerta pubblica di acquisto aperta a tutti.

Dietro le righe del nuovo Tuf si gioca un pezzo importante del futuro di Generali e, con essa, dell’intero salotto buono della finanza italiana. Le prossime settimane diranno se a prevalere sarà la spinta a rendere il mercato più dinamico o la scelta di irrigidire l’architettura del potere nelle grandi società quotate sotto la bandiera della stabilità.

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