Ricchezza pulita e sporca

- di: Giuseppe Borrelli
 
Quando, nel 2014, in coerenza con i nuovi schemi di contabilità nazionale Sec 2010, l’ISTAT ha inserito nei conti pubblici i ricavi di attività illegali quali il traffico di sostanze stupefacenti, i servizi della prostituzione e del contrabbando di sigarette o di alcool – in coerenza con la definizione dei conti nazionali come un sistema complessivo di transazioni economiche tra le quali far rientrare anche quelle che riguardano lo scambio di servizi o beni di natura illegale, dato che esse avvengono, comunque, su base volontaria – si è aperto nel nostro Paese un ampio dibattito che, nel solco di una radicata tradizione, si è trasformato immediatamente in uno scontro ideologico che ha rinunciato ad un approccio realistico al tema che le nuove regole dettavano e che era, invece, ineludibile: quello della esistenza e della accettabilità di una economia criminale e della necessità della sua quantificazione.

Da un lato, infatti, i “sacerdoti dell’antimafia” hanno lanciato urla di sdegno nei confronti della “immoralità dell’Economia” (e ancor di più della Macroeconomia), colpevole di mettere sullo stesso piano ricchezza pulita e sporca, in una omogeneizzazione che ribadisce le critiche mosse da taluno alla inadeguatezza del PIL come criterio di misurazione del benessere di una società. Più specificamente si è osservato, in proposito, che lo Stato opera attivamente per contrastare le attività criminali che consentono la produzione dei servizi della prostituzione o la disponibilità di merci di contrabbando, o di droga, a ciò destinando significative risorse finanziarie, umane e materiali, per cui farle rientrare nel calcolo del PIL significa definire le iniziative di contrasto ad esse come politiche pubbliche che hanno come obiettivo la riduzione del PIL ed (anche se non dichiaratamente) augurarsene il fallimento.

Dall’altro, i pragmatici hanno acriticamente condiviso, se non esaltato, questa novità, guardando agli effetti sui conti dello Stato, in una fase caratterizzata dalla necessità di convogliare ogni risorsa disponibile verso l’obiettivo del rispetto dei parametri di deficit e di rapporto debito/PIL imposti dai trattati internazionali sottoscritti dall’Italia dopo la crisi del 2011. Si era infatti osservato (le stime erano riferite al 2013), che, l’attribuzione al fatturato del traffico di stupefacenti di un valore annuo tra gli 11 e i 60 miliardi di euro (le cifre divergono a seconda degli istituti di ricerca), a quello della prostituzione di 7,5 miliardi e a quello del contrabbando di sigarette di 841 milioni, avrebbe determinato una riduzione del rapporto debito/Pil tra l’1,32 ed il 2,6%, con il conseguente raggiungimento, nell’ipotesi massima, senza alcuno sforzo economico e politico, della metà dell’obiettivo richiesto dal Fiscal Kompact. Il rapporto deficit/Pil, invece, sarebbe diminuito di 0,03 – 0,05 punti, con una maggiore disponibilità di risorse da spendere tra i 15 ed i 31 miliardi.

E, nel solco del pragmatismo di cui si diceva, si era proposto, anche in chiave di incrementare l’incidenza del fatturato di queste attività, di legalizzarne alcune, come la vendita di droghe leggere o la prostituzione.

Messa in questi termini, la contrapposizione tra le due posizioni appare caratterizzata da un evidente astrattismo. Tuttavia, proprio le considerazioni sui nuovi criteri di contabilità pubblica consentono una riflessione più vasta, estendendo il settore delle attività illecite prese in considerazione al di là dell’offerta di merci o servizi al pubblico da parte della criminalità organizzata, per affrontare la questione centrale, vale a dire se il contrasto alle attività illecite rappresenti la precondizione dello sviluppo di una società ovvero se, in un sistema economico caratterizzato da altri elementi di ampia flessibilità, non sia necessario accettare un tasso più o meno ampio di illegalità, magari modellando il sistema legislativo in modo da far divenire consentito ciò che, fino ad ora, non lo è mai stato.

Che, in realtà, le attività criminali possano essere produttive di ricchezza, anche per chi non le pratica, ed avere importanti ricadute su un indotto riconducibile a soggetti assolutamente estranei ad ogni traffico illecito, non è seriamente contestabile. Basti pensare, in proposito, all’abusivismo edilizio. Se si fa riferimento alla realtà di alcuni comuni del napoletano che hanno visto, negli ultimi venti anni dello scorso secolo, praticamente raddoppiare la loro popolazione e si pensa a ciò che detta attività ha rappresentato in termini di posti di lavoro e di produzione e commercializzazione di materie prime, si comprende bene come sia impossibile negare che essa abbia determinato un incremento del PIL locale. Né a conclusioni diverse potrebbe giungersi con riferimento ad altre attività illecite, come ad esempio la contraffazione di marchi, suscettibile di determinare un sistema di commercializzazione di specifiche categorie di beni del tutto alternativo a quello tradizionale (cd. economia del vicolo).

Secondo alcune statistiche particolarmente attendibili per la serietà della loro provenienza, sia pure nella consapevolezza di una sottostima del valore del prodotto delle attività illecite della criminalità organizzata, in Italia il fatturato del riciclaggio ammonta a 118 miliardi di euro. Nell’ultimo rapporto di S.O.S. impresa si afferma che le attività illegali producono, in Italia, un fatturato che si aggira intorno ai 140 miliardi di euro con un utile che supera i 100 miliardi di euro al netto degli investimenti e accantonamenti e genera 65 miliardi di euro di liquidità.

Che il crimine possa generare ricchezza è, pertanto, assodato. La questione irrisolta, peraltro, è se questa ricchezza coincida necessariamente o meno con lo sviluppo della società e della stessa economia. Se, in altri termini, sia corretto pensare che, nel caso di una origine illegale del reddito, possa non valere la normale equazione tra incremento della ricchezza e sviluppo economico.

Secondo uno studio Unioncamere del 2014, ogni punto di discesa nella classifica di percezione della corruzione provoca la perdita del 16% degli investimenti dall’estero. Lo stesso studio attesta che le imprese costrette a fronteggiare una pubblica amministrazione corrotta e che devono pagare tangenti crescono in media quasi del 25% in meno di quelle che non fronteggiano tale problema.

In termini di sviluppo del PIL, si è calcolato che la presenza della criminalità organizzata e, in termini più generali, di un ampio tasso di illegalità, determina per le regioni meridionali una perdita di PIL annua oscillante tra i 2 ed i 3 punti percentuali. Infine, un’analisi in cui è stato studiato lo sviluppo economico della Puglia e della Basilicata negli ultimi trent’anni, ovvero nel periodo successivo alla emersione in tali regioni del problema della criminalità organizzata, ha evidenziato che esse hanno perso 20 punti di PIL, essenzialmente per minori interventi privati.

Si tratta di dati che non abbisognano di alcun commento e che nemmeno possono stupire. Soprattutto non sono in contrasto con quanto prima si diceva a proposito della capacità di talune attività illecite di sviluppare reddito. E’ facile riflettere, ad esempio, sulle ricadute negative che il proliferare dell’abusivismo edilizio determina sul territorio per quanto riguarda l’inquinamento; ovvero, sulle conseguenze che il proliferare di merci contraffatte determina sulla filiera che quei medesimi prodotti potrebbe produrre regolarmente.

Ed ancora, e più in generale, non si può non tenere conto, per quanto riguarda le infiltrazioni nell’economia della imprenditoria mafiosa, di come l’alterazione dei normali criteri di concorrenzialità tra le imprese da essa determinata provochi un impoverimento del tessuto imprenditoriale e produttivo, scarsamente incline alla innovazione dei processi produttivi ed al miglioramento della qualità del prodotto, dato che tali fattori sono destinati a non svolgere alcuna incidenza sulla competizione tra imprese, che si svolgerà sulla base di criteri del tutto diversi.

Anche dal punto di vista del mercato del lavoro, lo sviluppo assicurato dall’imprenditoria mafiosa è solo apparente. I criteri di reclutamento dei lavoratori, infatti, basati su principi di natura prevalentemente clientelare, impediscono una selezione fondata sul merito della mano d’opera e, in ultima analisi, un miglioramento della sua qualificazione professionale. La desindacalizzazione, correlata alla capacità di intimidazione dell’imprenditore mafioso, è d’ostacolo a retribuzioni adeguate, a condizioni di lavoro accettabili e a quella consapevolezza dei diritti e dei doveri correlati allo status di lavoratore, che fonda l’ambizione ad un miglioramento delle proprie condizioni di vita.

Tornando al quesito iniziale, allora, la risposta appare chiara: se pur capaci di determinare crescita di ricchezza, le infiltrazioni della mafia nell’economia costituiscono un fattore potente di sottosviluppo di quelle aree territoriali in cui si svolgono i fenomeni criminali connessi al controllo del territorio da parte di organizzazioni mafiose. Ed anche per quanto riguarda i conti pubblici, l’incidenza su di essi della produzione di ricchezza derivante da attività illegali non può che essere negativa: non solo in quanto destinata ad avere incidenza a soli fini contabili, dato che essa rimarrà comunque esente dalla imposizione fiscale; ma soprattutto in quanto ad essa si accompagnerà una riduzione di redditività dell’impresa legale, di fatto destinata alla estromissione dal mercato o ad un sottodimensionamento privo di qualsivoglia prospettiva di futura crescita.

E’ da escludere, di conseguenza -ed è anzi vero esattamente il contrario- che investire nel contrasto ai fenomeni illegali possa costituire una politica contraria all’aspirazione ad una crescita nell’economia. La constatazione delle condizioni dell’economia in alcune delle regioni del Mezzogiorno d’Italia e la sottovalutazione delle potenzialità di una imprenditoria meritevole di tutela proprio per la dimostrata capacità di resistere alla contaminazione mafiosa lasciano piuttosto interrogarsi su quelle che sono le ragioni per le quali lo Stato abbia deciso di abbandonare a se stessi quei territori, eliminando dall’agenda il problema della criminalità organizzata e della sua incidenza sullo sviluppo del meridione. O forse pone il problema della adeguatezza di una classe politica in grado di procedere unicamente ad operazioni di mera ragioneria contabile, ma incapace di comprendere il nesso tra politiche da attuarsi in materia di ordine pubblico e giustizia e la restituzione dei diritti di cittadinanza alla popolazione onesta (la gran parte) di una rilevante porzione del nostro Paese.
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