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Times Square, “Gesù è palestinese”: cartellone luminoso e polemica

- di: Jole Rosati
 
Times Square, “Gesù è palestinese”: cartellone luminoso e polemica
Times Square, “Gesù è palestinese”: cartellone e polemica

Verde acceso, frase tagliente, Natale bollente: a Manhattan un messaggio lampo riapre la discussione su identità, storia e propaganda.

A Times Square, nel cuore iper-luminoso di New York, è comparsa un’insegna digitale con due facce: da un lato “Gesù è palestinese”, dall’altro “Buon Natale”. In poche parole, il cartellone è riuscito a fare ciò che a Times Square riesce solo ai messaggi davvero progettati per bucare lo schermo: fermarsi negli occhi dei passanti e farli discutere.

La notizia, diffusa in Italia il 25 dicembre 2025, indica come finanziatore l’American-Arab Anti-Discrimination Committee (ADC), organizzazione arabo-americana attiva sui temi dei diritti civili. Il punto, però, non è soltanto “chi paga”: è cosa intende dimostrare e perché quella frase è diventata una miccia.

Cosa sappiamo del cartellone: contenuto, finanziatore, strategia

Secondo quanto riportato dal New York Post (articolo pubblicato il 24 dicembre 2025), il cartellone è stato finanziato da ADC e fa parte di una serie di messaggi che l’organizzazione avrebbe fatto ruotare su schermi pubblicitari di Times Square con cadenza settimanale. Nell’intervista citata dal quotidiano, il direttore esecutivo nazionale Adeb Ayoub lega la campagna a un’idea di fondo: far emergere un terreno comune tra comunità arabe e musulmane e cristiani negli Stati Uniti, in un periodo di massima affluenza turistica.

Lo stesso New York Post riporta anche una seconda creatività della campagna, comparsa “questa settimana”, con un’altra frase destinata a far rumore: “Gesù direbbe: abbattete quel muro”, espressione che richiama slogan politici e memorie mediatiche ben note.

Reazioni sul posto: tra indignazione e difesa della libertà di parola

Il termometro di Times Square, raccontato dal New York Post il 24 dicembre 2025, è quello di un’area dove nessuno passa davvero “per caso” e dove l’opinione è spesso immediata, istintiva, fotografabile. Tra i passanti intervistati emergono reazioni critiche: c’è chi definisce il messaggio divisivo, chi lo giudica provocatorio perché “politicizza” una figura religiosa, e chi sostiene che Gesù “sia di tutti” e che l’etichetta identitaria sia superflua.

Ma nello stesso racconto compaiono anche voci di segno opposto: alcuni difendono la campagna in nome della libertà di espressione e della necessità di “portare in primo piano” un dolore contemporaneo, proprio durante una festività che richiama pace e solidarietà.

La frase che incendia tutto: perché “Gesù è palestinese” divide così tanto

La potenza del messaggio sta in un cortocircuito: prende una figura universalizzata (Gesù) e la riporta a una geografia contemporanea (Palestina) che, per molti, ha un’immediata valenza politica. Qui si innesta il problema centrale: storia, fede e identità nazionale non parlano la stessa lingua.

Il punto storico: cosa è accertato e cosa è interpretazione

Alcuni fatti sono relativamente stabili nelle fonti divulgative autorevoli: Gesù è generalmente collocato tra Betlemme e Gerusalemme come coordinate biografiche principali, ed è inquadrato nel contesto della Giudea e del mondo ebraico del I secolo. L’Enciclopedia Britannica, ad esempio, lo descrive come nato a Betlemme e morto a Gerusalemme, e ricostruisce il contesto di “Palestina ebraica” sotto il dominio romano all’epoca della sua nascita: una formula che indica un’area geografica-storica, non un’identità nazionale moderna.

Tradotto: la frase “Gesù è palestinese” non è un’affermazione “da manuale di storia” nel senso contemporaneo del termine, perché l’identità nazionale palestinese e le categorie politiche attuali sono successive di molti secoli. Ma la campagna sembra puntare su un’altra chiave: Betlemme oggi è in Cisgiordania e, nelle mappe attuali, ricade nei Territori palestinesi; dunque il messaggio gioca sul legame tra luogo e appartenenza percepita.

Il punto religioso: radici e appropriazioni

A Natale, qualunque messaggio su Gesù è anche un messaggio sulla comunità che lo legge. Da un lato, il cristianesimo nasce e si sviluppa nel Medio Oriente storico; dall’altro, la figura di Gesù è stata per secoli “adottata” da culture lontane dalla sua regione d’origine. In questo senso, la frase del cartellone può essere letta come una provocazione: ricondurre Gesù al suo paesaggio, sottraendolo all’immaginario esclusivamente occidentale.

Ma proprio qui scatta l’attrito: molti osservatori considerano essenziale ricordare che Gesù, storicamente, è collocato dentro l’ebraismo del suo tempo. Nel resoconto del New York Post (24 dicembre 2025), alla domanda sulla sua ebraicità, Ayoub risponderebbe in modo volutamente non definitivo, parlando di un tema “aperto all’interpretazione” e usando un linguaggio più spirituale che storico. Questa scelta comunicativa, prevedibilmente, alimenta ulteriori contestazioni: perché sposta la discussione dal piano dei fatti al piano dei simboli.

Times Square come palcoscenico: perché proprio lì (e perché proprio a Natale)

Times Square non è soltanto un incrocio: è una macchina mediatica. Il senso di piazzare un messaggio del genere lì, e nel pieno delle festività, è moltiplicare l’effetto: più folla, più foto, più condivisioni, più reazioni. Nel racconto del New York Post, l’ADC avrebbe scelto proprio questo periodo perché coincide con uno dei momenti di maggiore densità turistica a New York.

È una strategia tipica della comunicazione contemporanea: un’affermazione che sembra “assoluta” in realtà è progettata per ottenere una cosa molto concreta: far parlare. E infatti Ayoub, sempre secondo il New York Post (24 dicembre 2025), rivendica esplicitamente l’obiettivo: se il cartellone accende la discussione, allora “ha funzionato”.

Un dettaglio che conta: non solo un cartellone, ma una sequenza

Un elemento spesso trascurato nel dibattito immediato è la forma “seriale” dell’operazione. La stessa fonte americana parla di messaggi a rotazione nel corso dell’anno e anticipa l’arrivo di un’ulteriore creatività in occasione di Capodanno. In altre parole, il cartellone natalizio non sarebbe un episodio isolato, ma un tassello di una campagna che punta a presidiare l’attenzione con continuità.

Il rimbalzo online: orgoglio, critica, rivendicazione culturale

La discussione non resta confinata ai marciapiedi di Manhattan. Nelle ore di Natale, post e ricondivisioni hanno amplificato l’immagine del messaggio. Sul profilo Instagram adcnational (contenuti pubblicati e rilanciati il 25 dicembre 2025), l’organizzazione descrive i cartelloni come un gesto di resilienza culturale e presenta anche un secondo visual con un riferimento testuale religioso (citato come versetto coranico) accostato agli auguri. Un’impostazione che, per sostenitori e critici, sposta ulteriormente la questione: non più solo “Gesù e Palestina”, ma anche dialogo interreligioso e identità.

Anche testate non statunitensi rilanciano la cornice “culturale” dell’operazione. Ad esempio, Roya News (articolo pubblicato il 25 dicembre 2025) parla di campagna pensata per valorizzare “voce” e “patrimonio” palestinese durante il periodo natalizio, riportando l’esistenza di più creatività, non di una sola.

Che cosa resta, oltre la polemica: una domanda scomoda

Tolta la schiuma della rissa social, la questione di fondo è: chi può rivendicare un simbolo religioso universale in un tempo in cui identità e geopolitica si mangiano ogni parola? Il cartellone, nel bene e nel male, porta lì dove molti non vogliono andare a Natale: nel punto in cui storia, fede e propaganda diventano indistinguibili per chi guarda da lontano.

E forse è proprio questo il senso comunicativo più freddo e più efficace dell’operazione: non “convincere”, ma costringere a scegliere una reazione. A Times Square, l’attenzione è la moneta più cara. E qui è stata incassata.    

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