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Trump e il Nobel negato: l’ossessione di un presidente in cerca di gloria

- di: Bruno Legni
 
Trump e il Nobel negato: l’ossessione di un presidente in cerca di gloria

Il presidente Usa trasforma anche il Nobel in propaganda. La Casa Bianca attacca il Comitato di Oslo, Putin applaude e Trump ringrazia: ma dietro il mito del “premio rubato” c’è solo la fame di riconoscimento di un leader che confonde la diplomazia con lo spettacolo.

(Foto: la cerimonia di consegna del Premio Nobel).

Donald Trump non ha vinto il Nobel per la Pace. Ma, ancora una volta, è riuscito a trasformare la sconfitta in un palcoscenico. Nel giorno in cui la venezuelana María Corina Machado riceveva il premio per il suo coraggio democratico, dalla Casa Bianca partiva l’ennesima offensiva comunicativa contro il Comitato di Oslo: “Alla pace antepone la politica”, ha dichiarato Steven Cheung, direttore delle comunicazioni del presidente. Una frase che, nella logica trumpiana, suona come un’accusa rivolta al mondo intero per non aver riconosciuto il suo genio autoproclamato di pacificatore universale.

L’ossessione del premio mancato

Che Trump rivendichi il Nobel non è una novità, ma un copione. Da anni ripete che lo merita, che “nessuno ha fatto quello che ho fatto io”, e che il mondo intero “glielo deve”. Nel suo racconto, i vertici con Kim Jong-un, i cessate il fuoco mediati tra Congo e Ruanda, tra Azerbaigian e Armenia, o il temporaneo equilibrio in Medio Oriente sono prove di una missione salvifica interrotta solo dall’invidia degli altri. È la stessa narrazione che lo porta a definirsi vittima di un sistema ingiusto, che non riconosce la sua grandezza ma ne teme l’impatto. Un’epica personale che alimenta il mito dell’uomo solo contro il mondo.

La realtà, però, è un’altra. Nessuno, al di fuori della sua cerchia, ha mai considerato credibile la sua candidatura. I suoi presunti “accordi di pace” sono stati quasi tutti temporanei, incompleti o geopoliticamente tossici: dall’accordo di Doha con i talebani, che ha aperto la strada al ritorno del fondamentalismo in Afghanistan, agli “Accordi di Abramo”, basati più sulla convenienza militare che sulla reale riconciliazione. Trump, più che un costruttore di pace, è stato un architetto dell’instabilità. Eppure, continua a ripetere che “avrebbe dovuto vincere quattro o cinque volte”.

Putin come specchio, non come alleato

L’ultimo capitolo della saga è arrivato con un post su Truth, la sua piattaforma personale. Trump ha rilanciato un video di Vladimir Putin che lo elogia per “il lavoro nel risolvere dispute che durano da anni”, ringraziandolo con un laconico: “Grazie presidente Putin”. Un gesto che basterebbe da solo a definire la deriva morale dell’attuale presidenza americana. Il leader del Cremlino, sotto sanzioni internazionali e con la guerra in Ucraina ancora in corso, diventa il testimonial ideale del “Trump pacificatore”. Un ossimoro perfetto: l’uomo che alimenta le tensioni globali ringrazia l’uomo che le ha provocate.

Dietro la riconoscenza verso Putin non c’è soltanto l’ennesimo scambio di favori simbolici, ma una precisa strategia: accreditarsi come il leader del “nuovo ordine mondiale”, al di fuori delle istituzioni tradizionali, delegittimando tutto ciò che non rientra nel suo schema personale di potere. Ecco perché l’attacco al Comitato di Oslo non è solo una questione d’orgoglio, ma una prova di forza politica. Trump non sopporta autorità che non controlla. E il Nobel, per definizione, è una di quelle.

La pace come brand personale

Nel linguaggio di Trump, la pace non è un valore, ma un marchio. È l’etichetta di un prodotto che può essere venduto come ogni altro: “Make Peace Great Again”. Il suo staff lo sa e lo sfrutta. Cheung, il portavoce più aggressivo della Casa Bianca, ha scritto che “non ci sarà mai nessuno come lui, capace di spostare le montagne con la sola forza della volontà”. Parole che sembrano più adatte a una biografia di culto che a un comunicato ufficiale. Ma per Trump la comunicazione è sempre e solo campagna elettorale. Il Nobel non serve per ciò che rappresenta, ma per ciò che dimostra: che anche la diplomazia può essere piegata al personalismo politico.

Negli Stati Uniti, la messa in scena funziona. Ogni polemica alimenta la narrativa del “presidente del popolo” tradito dalle élite. Ogni mancato riconoscimento diventa una prova di complotto. È un meccanismo perfetto: la sconfitta si trasforma in vittoria morale, il rifiuto in conferma del proprio destino.

Il Nobel come specchio del potere

Il Comitato norvegese, composto da cinque membri scelti dal Parlamento, ha risposto con eleganza e fermezza: “Abbiamo agito nel nome del coraggio e dell’integrità”. Tradotto: non ci facciamo intimidire. Una presa di posizione che in altri tempi sarebbe sembrata superflua, ma che oggi suona quasi rivoluzionaria. In un mondo dove la politica piega ogni simbolo alla propaganda, difendere l’autonomia del Nobel è un atto di resistenza.

María Corina Machado, dal canto suo, ha reagito con equilibrio, ringraziando per il riconoscimento e parlando del premio come “un segno di speranza per tutto il popolo venezuelano”. Ma le sue parole, “oggi più che mai contiamo su Trump”, rischiano di essere travisate in un cortocircuito geopolitico. La leader democratica venezuelana, che lotta contro un regime autoritario, finisce inavvertitamente arruolata nella narrazione di un presidente che da sempre flirta con i leader autoritari. È il paradosso di questa epoca: il linguaggio della libertà usato come specchio della forza.

Il mito del “premio rubato”

Alla fine, tutto si riduce alla psicologia del potere. Trump non sopporta di non essere al centro. Non accetta che esista una scena mondiale che non ruoti intorno a lui. Per questo ogni premio dato a un altro è, per definizione, “rubato”. Ogni scelta indipendente è un affronto. Il Nobel, in questo contesto, diventa il simbolo di una frustrazione strutturale: quella di un uomo che vuole essere ricordato come un salvatore, ma che sarà giudicato come un divisore.

La sua rabbia non nasce dall’amore per la pace, ma dal terrore dell’oblio. Il Nobel rappresenta, nella sua mente, l’unico modo per entrare nella Storia dalla porta principale. Ma la Storia non si scrive con i post su Truth né con gli applausi di Putin. E la pace, per quanto gli dispiaccia, non si costruisce con l’ego. 

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