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Ue-Google, guerra sulla visibilità delle news online

- di: Vittorio Massi
 
Ue-Google, guerra sulla visibilità delle news online
Ue-Google, guerra sulla visibilità delle news online
La Commissione europea apre un nuovo fronte sul Digital Markets Act: nel mirino la politica anti-spam del motore di ricerca, gli editori denunciano un crollo del traffico e dei ricavi, Google parla di inchiesta fuorviante.

La nuova frattura tra Bruxelles e Silicon Valley passa da una formula tecnica: “site reputation abuse policy”. Dietro queste tre parole si consuma uno scontro che può ridisegnare il rapporto di forza tra motori di ricerca, editori e pubblico. La Commissione europea ha aperto un’indagine formale su Google per verificare se la sua politica anti-spam finisca per penalizzare i contenuti dei media nei risultati di ricerca, in violazione del Digital Markets Act (Dma). Sul piatto non ci sono solo possibili maxi-sanzioni, ma il futuro stesso del giornalismo online nel Vecchio Continente.

Che cosa contesta Bruxelles a Google

Il fascicolo aperto a Bruxelles riguarda il modo in cui Google applica la propria politica contro l’abuso di reputazione dei siti, pensata ufficialmente per contrastare spam, contenuti manipolativi e pratiche di parasite SEO. Secondo i dubbi sollevati dall’esecutivo comunitario, questa strategia avrebbe però un effetto collaterale pesantissimo: la retrocessione nei risultati di ricerca di siti di informazione e altri editori quando ospitano al loro interno contenuti provenienti da partner commerciali, come pubbliredazionali, branded content o sezioni di consigli per gli acquisti.

In pratica, l’algoritmo tratterebbe queste pagine come se compromettessero la “reputazione” complessiva del sito, spingendole verso il basso nelle SERP e trascinando con sé anche altre sezioni editoriali. Per gli editori significa, in molti casi, perdere traffico organico, visibilità e quindi entrate pubblicitarie in un momento in cui il settore è già sotto pressione per il calo degli investimenti e la concorrenza delle piattaforme digitali e dell’intelligenza artificiale generativa.

La Commissione, che agisce in base alle regole del Dma applicate ai cosiddetti gatekeeper, vuole capire se Google garantisca davvero un trattamento “equo, ragionevole e non discriminatorio” ai siti di notizie e ai fornitori di contenuti, come prevede la normativa europea sui mercati digitali. In caso di violazione accertata, il gruppo rischia sanzioni fino al 10% del fatturato globale, che possono arrivare al 20% in caso di recidiva, oltre a possibili rimedi strutturali come la cessione di rami d’azienda o divieti su nuove acquisizioni legate all’area sotto indagine.

Che cos’è la “site reputation abuse policy”

La “site reputation abuse policy” è il cuore del contenzioso. Si tratta della regola con cui Google intende colpire i siti che “affittano” la propria autorevolezza a terzi, ospitando contenuti commerciali poco trasparenti, spesso prodotti da piattaforme esterne e scollegati dalla linea editoriale principale. L’obiettivo dichiarato è impedire che domini storicamente affidabili vengano usati come trampolino per contenuti costruiti solo per scalare la ricerca, senza reale valore per gli utenti.

Negli ultimi anni Google ha rafforzato in più ondate la propria politica anti-spam, annunciando controlli mirati su settori particolarmente esposti come coupon, comparatori di prodotti, gambling, finanza personale. Le prime azioni manuali legate alla “site reputation abuse policy” sono arrivate nel 2024, con penalizzazioni a carico di grandi siti internazionali accusati di ospitare intere sezioni create per monetizzare meglio il traffico grazie a contenuti prodotti da partner esterni e costruiti per il posizionamento sui motori di ricerca.

Da allora la policy è stata più volte ampliata e chiarita: Google ha pubblicato FAQ, esempi di comportamenti vietati e linee guida per il recupero dei siti colpiti. Il punto di frizione con Bruxelles è però un altro: dove passa il confine tra spam e legittimo modello di business di un editore che, per sopravvivere, affianca all’informazione classica contenuti commerciali dichiarati, come guide agli acquisti, schede prodotto, consigli sui servizi finanziari o turistici.

Gli editori: traffico in calo e modelli di business a rischio

L’inchiesta europea è nata dopo una serie di segnalazioni da parte di editori e associazioni di categoria, che denunciano calo improvviso di visibilità e di ricavi pubblicitari su intere sezioni dei loro siti. In molti casi si tratta proprio di pagine nate per diversificare le entrate: verticali su tecnologia, viaggi, energia, finanza personale o salute, spesso gestite in partnership con brand o società specializzate.

Gli editori sostengono che questi contenuti siano chiaramente etichettati come “sponsorizzati” o “in collaborazione con”, e che facciano parte di una strategia trasparente di sostegno al giornalismo indipendente. Quando però l’algoritmo decide di declassarli, l’intero sito rischia un effetto domino, con ripercussioni anche sulle sezioni puramente informative. Da qui la richiesta di un intervento dell’Ue per verificare se la politica anti-spam di Google non si trasformi, di fatto, in un ostacolo alla libertà d’impresa e alla possibilità di innovare i modelli di business nel settore dei media.

Sullo sfondo c’è la fragilità strutturale dell’editoria: la migrazione degli investimenti pubblicitari verso le piattaforme, l’esplosione dei social e dei video brevi, la sfida delle chatbot e dei motori di ricerca potenziati dall’intelligenza artificiale, capaci di sintetizzare le notizie senza sempre rimandare alle fonti originarie. Ogni punto percentuale di traffico perso diventa così un pezzo di sostenibilità in meno per le testate, soprattutto quelle locali e di medie dimensioni.

La replica di Google: “Difendiamo gli utenti dallo spam”

La risposta di Google non si è fatta attendere. Il gruppo respinge al mittente le accuse e insiste sul fatto che la propria policy serva a proteggere la qualità della ricerca. “Stiamo facendo pulizia di contenuti fuorvianti che sfruttano la reputazione di siti autorevoli solo per scalare i risultati di ricerca”, è la linea di difesa del colosso di Mountain View, che definisce l’indagine europea “fuorviante” e “infondatа”.

Secondo il gigante del web, un allentamento delle regole contro lo spam aprirebbe la porta a una marea di contenuti manipolativi, riducendo la qualità delle informazioni disponibili per gli utenti europei e danneggiando anche le aziende che cercano visibilità legittima. L’azienda ricorda inoltre che un tribunale tedesco ha già dato ragione alla propria politica anti-spam in un contenzioso con un editore, riconoscendola come misura ragionevole e applicata in modo coerente.

Google sostiene di aver già apportato modifiche ai propri servizi per rispettare il Dma, ad esempio con maggior trasparenza sulle etichette, nuove opzioni per gli utenti e strumenti dedicati agli editori. Nella sua lettura, l’indagine europea rischia di penalizzare milioni di utenti, rendendo la ricerca meno utile e meno affidabile, proprio mentre l’azienda è impegnata a ripensare i risultati alla luce dell’intelligenza artificiale e dei nuovi formati generativi.

La posizione italiana: “Spazio all’informazione professionale”

Dal fronte italiano, il procedimento europeo viene letto come un passaggio cruciale per riequilibrare i rapporti tra piattaforme e giornali. Il sottosegretario all’Editoria Alberto Barachini ha accolto positivamente la mossa di Bruxelles, sottolineando l’esigenza di garantire che i grandi servizi digitali non comprimano lo spazio dell’informazione di qualità.

“È fondamentale verificare che gli over-the-top riconoscano il giusto rilievo all’informazione professionale, giornalistica e di interesse pubblico”, ha osservato, ricordando come questa richiesta sia stata portata anche ai tavoli europei tra i ministri dei media e della cultura. Per Roma, l’indagine Ue si inserisce in una battaglia più ampia per difendere il pluralismo e per fare in modo che i contenuti prodotti dalle redazioni non vengano inghiottiti, in termini di visibilità, da logiche puramente algoritmiche.

L’Italia guarda al Dma come a uno strumento chiave per evitare che le piattaforme digitali diventino l’unico punto di passaggio obbligato per l’accesso all’informazione. Da qui il sostegno a un’applicazione rigorosa delle regole europee e a un monitoraggio costante dell’impatto che le decisioni tecniche dei giganti del web possono avere sul sistema dei media nazionali.

Il nodo politico: l’ira di Washington e il ritorno di Trump

L’offensiva europea contro le Big Tech statunitensi non avviene nel vuoto. A Washington, le sanzioni miliardarie contro le aziende americane attive nel digitale sono da anni motivo di tensione. Con il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump, le critiche alla regolazione Ue si sono fatte ancora più esplicite: il nuovo presidente ha accusato Bruxelles di prendersela “sistematicamente” con i campioni nazionali statunitensi e ha promesso contromisure se le aziende americane saranno, a suo dire, “ingiustamente penalizzate”.

La nuova indagine su Google, che arriva poche settimane dopo un’altra maxi-multa europea nel settore della pubblicità online, rischia quindi di diventare anche un dossier geopolitico, in cui si intrecciano concorrenza, sovranità digitale e rapporti commerciali transatlantici. Bruxelles, dal canto suo, rivendica il diritto-dovere di applicare le proprie regole al mercato unico, indipendentemente dalla bandiera che sventola sui quartier generali delle Big Tech.

La maxi-multa sull’adtech e la lunga saga europea su Google

L’inchiesta sulla visibilità dei contenuti di news arriva a pochi mesi da una decisione storica: la multa da 2,95 miliardi di euro inflitta a Google per pratiche anticoncorrenziali nel mercato dell’advertising technology. In quel caso la Commissione ha contestato al gruppo di aver favorito i propri servizi nella filiera che collega inserzionisti, editori e intermediari, deformando il gioco competitivo a danno dei rivali e, in ultima istanza, degli stessi editori.

Oltre alla sanzione economica, Bruxelles ha imposto al colosso californiano una serie di rimedi strutturali per ridurre i conflitti di interesse lungo la catena del valore pubblicitaria, chiedendo a Google di presentare un piano dettagliato per mettere fine alle condotte ritenute abusive. La nuova indagine sul trattamento delle news nelle SERP arriva mentre il gruppo deve ancora dimostrare di aver recepito quelle prescrizioni, segno di un controllo sempre più stretto sui modelli di business delle piattaforme dominanti.

Non è la prima volta che la Ue interviene sui servizi chiave di Google: dal comparatore di prezzi allo shopping online, fino al sistema operativo mobile e alla pubblicità digitale, le indagini e le sanzioni si sono accumulate nel corso degli anni, alimentando il dibattito su quanto sia giusto e opportuno regolare gli algoritmi di aziende private che, di fatto, gestiscono infrastrutture essenziali per l’accesso all’informazione.

Cosa può succedere adesso

L’indagine aperta sulla “site reputation abuse policy” è destinata a durare mesi. In questa fase la Commissione raccoglierà dati, documenti tecnici, testimonianze degli editori e delle associazioni, oltre alle memorie difensive di Google. L’azienda potrebbe proporre impegni volontari per modificare alcune impostazioni della ricerca, ammorbidire i criteri anti-spam o introdurre garanzie specifiche per il settore dei media, nel tentativo di chiudere il caso senza una nuova sanzione miliardaria.

Per gli editori europei, il dossier rappresenta una rara finestra di opportunità per ridisegnare il rapporto con il principale intermediario di traffico al mondo. Sullo sfondo resta però una domanda di fondo: fino a che punto l’Unione può spingersi nel regolare algoritmi che cambiano di continuo, senza rallentare l’innovazione e senza irrigidire eccessivamente un ecosistema digitale che vive di sperimentazione?

Di certo, la partita non riguarda solo gli addetti ai lavori. Ogni clic perso sulle pagine di un giornale o di una testata locale è un frammento di spazio pubblico che si restringe. E l’esito dello scontro tra Bruxelles e Google sulla visibilità delle news online dirà molto non solo sul futuro del digitale, ma anche su come verrà informata la democrazia europea nei prossimi anni.

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