Negli abissi dell’in-differenza

- di: Barbara Leone
 
E guardo il mondo da un oblò mi annoio un po’… E si dovevano annoiare davvero molto i facoltosi passeggeri del sommergibile Titan. Premessa, dovuta seppur scontata: ci dispiace assai che siano morti ed anche noi, come il mondo intero, siamo rimasti col fiato sospeso nella speranza di poterli vedere riemergere dagli abissi oceanici. Dispiace come peraltro per ogni morte violenta e inaspettata. Non che se uno schiatta dopo una lunga malattia amen e ciao. Anzi, a pensarci bene è pure peggio. Semmai possa esistere un peggio o un meglio quando si parla di morte. E però ora che questa tragica storia è giunta al più drammatico degli epiloghi, è naturale, umano e pure inevitabile rifletterci su. Con il dovuto rispetto, certo. Ma anche con la consapevolezza che era una tragedia evitabile. E inutile. La verità, cruda e pure odiosa, è che i cinque passeggeri del Titan hanno scelto di salire su quel sommergibile, firmando pure una liberatoria sulla quale c’era scritto chiaro chiaro, nero su bianco, che si assumevano il rischio di “poter morire durante il viaggio”. E per questo rischio hanno pagato fior di quattrini, anche se magari per loro equivaleva ad un pacchetto di sigarette nostre. Fa poi alquanto impressione il fatto che tra loro ci fosse anche un ricco pakistano, tal Shahzada Dawood, che s’è tirato dietro pure il figlio diciannovenne. Il quale, dicono, era terrorizzato all’idea di salire su quel coso dove, a detta di chi c’era già salito, si sta per tutto il tempo al buio per risparmiare energia ammassati l’uno sull’altro.

La tragedia del Titan

Ebbene questo magnate pakistano ha pagato mezzo milione di dollari, tra il suo biglietto e quello del figlio, per una gita mortale. Mezzo milione di dollari: roba da sfamare mezzo Pakistan. E non è buonismo o melensa retorica, perdindirindina. E’ banalissimo buon senso. E’ attaccare due neuroni in croce, perché devi star proprio fuori come un balcone per pagare tutti quei soldi solo per lo sfizio di vedere da vicino l’effetti che fa. Nella fattispecie il relitto di una nave affondata per disgrazia il secolo scorso. Al cui interno ci saranno ancora pure i resti di quei poveri disgraziati. Che loro sì, non avevano colpa. Come non hanno colpa quegli altri poveri disgraziati dei giorni nostri che scappano da guerre e miseria nera a bordo di barchini traballanti nella speranza di una vita degna di questo nome. Anche loro pagano fior di quattrini, e lo fanno spesso indebitandosi fino al collo vendendosi pure la madre per poi morire nella quasi totale indifferenza del mondo intero. Lo stesso mondo che si è mobilitato con mezzi d’ogni tipo, e chissà quanto costosi, per salvare cinque miliardari capricciosi. Qui va tutto al rovescio. Il cimitero del Mediterraneo è oramai quasi sempre relegato a penultima notizia, o giù di lì. Assuefatti come siamo alla morte di chi, come dice qualcuno, dovrebbe starsene a casa sua. Magari a farsi torturare, stuprare o fucilare. Nel caso del sommergibile, invece, titoloni a gogò, aperture di giornali e telegiornali con tutti a far la conta, minuto per minuto, dell’ossigeno che resta. La fiction contro la vita vera. Perché tutto questo clamore è semplicemente figlio di una società che sovrappone spietatamente sceneggiature da horror alla realtà. Tutto guidato dall’orribile e folle regola del mondo in cui viviamo, secondo cui se si parla così tanto di un fatto ce ne sarà un altro cui non viene dato l'interesse che merita solo perché è avvenuto nel lato sbagliato del mondo. O alle persone sbagliate. Ed invece è proprio lì che bisogna andare. E’ proprio su questo che occorre lavorare a livello di politica, di comunicazione ma soprattutto di coscienze, oramai annegate negli abissi dell’in-differenza. Volutamente staccato, perché la differenza che non ci piace ci porta all’insulto e, infine, all’indifferenza. E riguarda tutti. Media in primis. Sono loro, siamo noi, che dovremmo gridare fino all’ultimo fiato che le morti sono tutte uguali. Con la sola differenza che chi annega nei nostri mari lo fa per disperazione, oltre che per incapacità dei governi europei tutti. Non per sfizio, né per noia. Poi certo, è sempre bello viaggiare, scoprire, superare i limiti, provare l’ebbrezza di sfidare il destino e la natura. Infondo lo fece pure Icaro, e sappiamo tutti come è andata a finire. 
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