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Ben Gvir provoca nel villaggio beduino: chi è il padrone di casa? Io

- di: Bruno Legni
 
Ben Gvir provoca nel villaggio beduino: chi è il padrone di casa? Io
Ben Gvir nel villaggio beduino: chi è il padrone di casa?
Lakiya sotto assedio: sicurezza, provocazione e un Negev che ribolle.

Nel villaggio beduino di Lakiya, nel Negev, il messaggio è stato chiarissimo: Itamar Ben Gvir è arrivato per ribadire chi comanda. Il ministro israeliano per la Sicurezza nazionale, figura simbolo dell’ultradestra, ha scelto di tornare per la seconda volta in poche settimane in questa cittadina araba, trovando davanti a sé non solo posti di blocco di cemento e un massiccio dispiegamento di polizia, ma anche la rabbia dei residenti e lo scontro diretto con un deputato arabo della Knesset.

Mentre i mezzi blindati chiudevano gli accessi a Lakiya nell’ambito della nuova Operazione “Nuovo Ordine”, pensata per colpire il crimine organizzato e il traffico di armi nelle comunità beduine del sud, il ministro si è rivolto al parlamentare Walid al-Hawashleh con una frase destinata a pesare. Di fronte alle telecamere e agli smartphone, gli ha ricordato di essere lui a decidere chi conta davvero nel villaggio, arrivando a intimargli in arabo di andare via, usando la parola “barra”, percepita dai presenti come un insulto.

Poco dopo, mentre il corteo lasciava il villaggio, decine di residenti hanno accompagnato il ministro con fischi, urla e gesti di scherno. Quella che nelle intenzioni del governo doveva essere la vetrina di una “riconquista dell’ordine” si è trasformata in un nuovo capitolo dello scontro politico ed etnico nel deserto del Negev.

Il corteo blindato nel Negev

La visita di Ben Gvir a Lakiya non è un episodio isolato. È la versione in diretta di una strategia politica precisa: mostrare ai cittadini e al suo elettorato che lo Stato sa ancora imporsi, anche a costo di umiliare una minoranza che da anni denuncia discriminazioni e marginalizzazione.

Prima dell’arrivo del ministro la polizia ha chiuso gli ingressi di Lakiya con blocchi di cemento, un metodo che ricorda da vicino le chiusure militari in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. L’operazione è stata motivata con la necessità di impedire la circolazione di armi e di bande criminali tra i villaggi beduini, in un contesto segnato da un’impennata di sparatorie e regolamenti di conti.

A Lakiya, però, molti hanno visto tutt’altro: non un’azione chirurgica contro la criminalità, ma una punizione collettiva che rende la vita quotidiana – andare a scuola, lavorare, recarsi in ospedale – più difficile per tutti. Da qui le proteste, gli insulti, la scena del deputato al-Hawashleh che rincorre il ministro accusandolo di razzismo e provocazione, mentre Ben Gvir risponde alzando la voce e rivendicando, in sostanza, di non temere nessuno.

Una maxi operazione di polizia

La visita a Lakiya si inserisce nella nuova Operazione “Nuovo Ordine” nel Negev, lanciata nei giorni precedenti. Secondo le informazioni diffuse dalle autorità, l’operazione prevede l’impiego di centinaia di agenti, unità speciali navali, reparti cinofili, squadroni a cavallo e l’unità aerea della polizia per colpire il traffico di armi, gli spari nei centri abitati e il crimine organizzato nelle comunità beduine.

Nei primi giorni sono stati arrestati diversi sospetti e sequestrate armi e munizioni. L’operazione è stata presentata come risposta a una serie di episodi di violenza, tra cui una sparatoria mortale nella città beduina di Rahat che ha ucciso anche un minorenne. Nelle dichiarazioni ufficiali, l’obiettivo è “ristabilire la governabilità nel Negev” e riportare sicurezza ai residenti, in particolare alle famiglie arabe che chiedono da tempo protezione dai clan armati.

Nei villaggi, però, la percezione è ambivalente: da un lato la richiesta di sicurezza è reale, dall’altro il timore è che l’operazione si traduca in più posti di blocco, perquisizioni di massa, demolizioni e controlli selettivi sulle comunità beduine, con un’ulteriore frattura con lo Stato.

Un ministro costruito sul conflitto

Itamar Ben Gvir non è un ministro qualunque. Avvocato, colono in Cisgiordania, leader del partito di ultradestra Otzma Yehudit, ha costruito la propria carriera politica sul linguaggio della forza, della contrapposizione e della supremazia ebraica. Nei suoi comizi e nelle sue apparizioni pubbliche insiste sull’idea di un Israele “sotto assedio” che deve rispondere con pugno di ferro.

Non è la prima volta che rivendica di essere il “padrone di casa”. Nel 2023, durante una salita al complesso di al-Aqsa/Monte del Tempio a Gerusalemme – luogo sacro e altamente sensibile – aveva dichiarato che Israele è in controllo del sito e che i nemici non avrebbero dettato l’agenda, scatenando proteste palestinesi e critiche internazionali.

Negli ultimi anni Ben Gvir ha promosso politiche di distribuzione massiccia di armi ai cittadini israeliani, in particolare nelle aree di confine e nei territori più esposti. Organizzazioni per i diritti umani e analisti hanno denunciato il rischio di una “militarizzazione diffusa” e di un aumento di episodi di violenza contro palestinesi e cittadini arabi di Israele, mentre da ambienti diplomatici sono arrivati moniti sull’uso di armi fornite da Paesi alleati.

Il linguaggio usato a Lakiya – l’idea che ci sia un “padrone di casa” che decide chi può restare e chi deve “uscire” – è quindi perfettamente coerente con una linea politica che punta a mostrare muscoli e a ribadire, anche simbolicamente, chi ha l’ultima parola sul territorio.

Il nodo irrisolto dei beduini del Negev

Per capire perché la scena di Lakiya provoca una reazione così forte, bisogna guardare alla storia dei beduini del Negev. Parliamo di decine di migliaia di cittadini arabi di Israele che vivono in città riconosciute come Rahat o Lakiya, ma anche in decine di villaggi definiti “non riconosciuti”, privi di servizi essenziali e spesso sotto la minaccia di demolizioni.

Studi e rapporti ricordano come le comunità beduine denuncino da anni espropri di terre, mancanza di infrastrutture, scuole e servizi sanitari adeguati, tassi di disoccupazione più alti rispetto alla media nazionale e politiche urbanistiche percepite come strumenti di controllo più che di sviluppo.

Negli ultimi mesi si è aggiunto un ulteriore livello di tensione: iniziative governative per individuare, anche tramite strumenti tecnologici avanzati, costruzioni considerate “abusive” nelle aree beduine, con l’obiettivo dichiarato di fermare nuove occupazioni di terreno. Le comunità interessate denunciano il rischio di una stretta ulteriore, che lega insieme sicurezza, pianificazione territoriale e identità.

In questo contesto, la visita di un ministro che arriva circondato da agenti, chiude gli accessi al villaggio e si presenta come “padrone di casa” non è percepita come una semplice ispezione di sicurezza, ma come l’ennesimo atto di delegittimazione di una popolazione che rivendica di essere parte dello Stato, non un corpo estraneo.

Sicurezza contro diritti: lo scontro politico interno

Lo scontro con il deputato Walid al-Hawashleh è solo la parte più visibile di una frattura che attraversa la politica israeliana. Il ministro e i suoi sostenitori sostengono che, di fronte all’escalation di sparatorie e omicidi nelle comunità arabe, serva una risposta durissima e che le critiche siano, in pratica, un modo per proteggere i criminali.

Dall’altra parte, parlamentari arabi, associazioni civiche e una parte dell’opposizione ebraica accusano Ben Gvir di usare il tema della sicurezza per rafforzare il controllo sulle minoranze, senza affrontare le radici economiche e sociali della violenza: povertà, mancanza di investimenti, assenza di prospettive per i giovani, lentezza delle istituzioni nella lotta alle mafie locali.

Le immagini di Lakiya, in cui il ministro viene bersagliato da insulti e derisioni mentre lascia il villaggio, diventano così un simbolo doppio: per i suoi sostenitori, la prova di un leader che non arretra davanti alle contestazioni; per i critici, la dimostrazione di un potere che sceglie la via della provocazione invece del dialogo.

Un Negev laboratorio del futuro di Israele

Il deserto del Negev non è più solo una periferia geografica. È un laboratorio politico dove si decide che tipo di rapporto lo Stato intende avere con le sue minoranze e fino a che punto è disposto a spingersi nel nome della sicurezza.

Operazioni come “Nuovo Ordine” possono colpire davvero il crimine organizzato solo se accompagnate da investimenti, infrastrutture, scuole, riconoscimento dei villaggi e partecipazione delle comunità beduine alla definizione delle politiche. Se invece vengono percepite come un assedio, rischiano di spingere una parte della popolazione ancora più lontano dallo Stato.

In questo quadro, la frase di Ben Gvir a Lakiya – la rivendicazione di essere il padrone di casa in un villaggio abitato da cittadini israeliani arabi – suona come un campanello d’allarme: non solo per il Negev, ma per l’intera democrazia israeliana. La domanda, ormai, non è più chi “comanda”, ma se sia ancora possibile costruire una casa comune in cui il potere non abbia bisogno di umiliare una parte dei suoi cittadini per dimostrare di esistere. 

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