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L’Unesco apre le porte alla cucina italiana: primo sì verso il riconoscimento come patrimonio dell’umanità

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
L’Unesco apre le porte alla cucina italiana: primo sì verso il riconoscimento come patrimonio dell’umanità

L’odore di sugo, pane e olio d’oliva varca i confini della cultura per entrare, ufficialmente, nella storia. Questa mattina l’Unesco ha espresso il suo primo parere positivo sulla candidatura della cucina italiana a patrimonio culturale immateriale dell’umanità. È il via libera tecnico al dossier di candidatura presentato dal nostro Paese, un passaggio decisivo che anticipa la decisione politica attesa per dicembre, quando il Comitato intergovernativo dell’Unesco si riunirà a New Delhi, in India, dall’8 al 13.

Unesco: primo sì per la cucina italiana come patrimonio dell’umanità

Non è solo una vittoria simbolica, ma un riconoscimento della cultura materiale più identitaria d’Italia. La cucina italiana non è un insieme di ricette, ma un linguaggio collettivo: parla di territori, gesti, stagioni, famiglie e mestieri. Ogni piatto, dal nord al sud, custodisce una memoria e un’economia. È arte quotidiana, ma anche impresa diffusa, capace di generare lavoro, turismo e reputazione.

Il parere tecnico favorevole degli esperti Unesco certifica proprio questo: che la cucina italiana è una tradizione viva, tramandata oralmente e socialmente, fatta di conoscenze, rituali e pratiche che uniscono le generazioni. Un bene intangibile, ma concreto come la pasta fatta in casa o il caffè condiviso al bar.

Un patrimonio che muove economia e identità
Il valore economico di questo riconoscimento non è secondario. L’agroalimentare e la ristorazione italiani rappresentano oltre il 15% del Pil, con un indotto che tocca quasi ogni comparto produttivo: dal turismo ai trasporti, dal design alla comunicazione.
Ma la cucina italiana è anche una diplomazia culturale, un marchio che apre porte e consolida immagine. L’iscrizione nella lista dei patrimoni immateriali sarebbe un volano per tutto il made in Italy, riconoscendo alla nostra tradizione culinaria la stessa dignità che già hanno ottenuto la dieta mediterranea, l’arte del pizzaiuolo napoletano e il canto a tenore sardo.

La forza del dossier italiano
La candidatura, promossa dal Ministero della Cultura e dal Ministero dell’Agricoltura, Sovranità Alimentare e Foreste, è frutto di un lavoro lungo e condiviso. Al centro del dossier, la definizione di cucina italiana come “insieme di pratiche sociali, rituali e gesti quotidiani che riflettono la diversità bioculturale del Paese”.
Un racconto che va oltre il piatto: parla di comunità locali, di mercati, di filiere corte, di stagionalità e di un sapere popolare che ha saputo evolvere senza perdere autenticità.

Il verdetto di dicembre

La decisione finale spetterà ora al Comitato intergovernativo dell’Unesco, formato dai rappresentanti di 24 Paesi membri. Il voto politico, previsto nella sessione di dicembre a New Delhi, chiuderà un percorso iniziato ufficialmente nel 2023 e sostenuto da centinaia di realtà del settore, dai consorzi alimentari agli chef, dalle associazioni regionali alle accademie gastronomiche.

Se il via libera sarà confermato, la cucina italiana entrerà nella lista che già accoglie tesori immateriali come la cucina francese, la tradizione messicana e il washoku giapponese.

L’Italia e il suo modo di stare al mondo
In un tempo di globalizzazione e standardizzazione, il riconoscimento Unesco avrebbe anche un valore simbolico profondo: quello di difendere la lentezza, la biodiversità, la convivialità, le radici di una cultura che resiste proprio perché sa reinventarsi.

La cucina italiana non è solo la più imitata, ma anche la più condivisa: un patrimonio che vive nella quotidianità, nella manualità delle nonne come nella creatività dei giovani chef. E che, adesso, è a un passo dal diventare patrimonio universale, un bene comune dell’umanità.

Perché in fondo, come scriveva Mario Soldati, “la cucina è la più antica e la più moderna delle arti, quella che racconta meglio la storia di un popolo”.
E per l’Italia, forse, nessuna definizione potrebbe essere più esatta.

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