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Dazi a tappeto, Apple rilancia con 100 miliardi

- di: Bruno Coletta
 
Dazi a tappeto, Apple rilancia con 100 miliardi
Dazi USA a tappeto: de minimis abolito. Apple investe 100 miliardi
Trump alza i muri sui commerci, abolisce l’esenzione “de minimis” e spinge la manifattura in patria. L’Europa ha trattato per limitare i danni, ma l'appeasement ha un prezzo e il made in Italy trema. Apple sceglie la via degli investimenti per non pagare il conto.

Che cosa è cambiato da venerdì 29 agosto

Da ieri venerdì 29 agosto 2025 ogni pacco che entra negli Stati Uniti paga dazio: è stata abolita la franchigia “de minimis” sotto gli 800 dollari. La Customs and Border Protection ha iniziato a riscuotere i dazi a partire dalle 00:01 ora locale con un regime transitorio di sei mesi che consente ai corrieri postali di applicare un dazio forfettario tra 80 e 200 dollari a collo, a seconda del Paese d’origine (non vale per le spedizioni commerciali di aziende via courier espresso).

L’impatto è immediato: vari operatori postali europei hanno sospeso temporaneamente parte delle spedizioni verso gli Usa per adeguarsi alle nuove regole; DHL limita il canale postale standard (l’express resta attivo).

La nuova mappa dei dazi

Alla stretta sul “de minimis” si somma la cornice più ampia dei “dazi reciproci”: l’ordine esecutivo del 31 luglio 2025 ha fissato un +10% extra su tutti, con liste e aliquote specifiche per 92 Paesi (fino al 41% per la Siria). L’Allegato I indica tra l’altro 20% su Taiwan, 19% su Pakistan, Thailandia, Malesia e Filippine, 30% su Sudafrica, 35% su Serbia, 39% su Svizzera, 10% su Regno Unito. Per l’Unione europea vale una regola particolare: 0% aggiuntivo per i beni Ue che hanno già un dazio MFN ≥ 15%, integrazione fino al 15% per i beni con MFN < 15%.

Parallelamente, la Casa Bianca sta spostando una quota crescente di misure sul binario della sicurezza nazionale (Section 232) per blindare i dazi contro i ricorsi: più di 400 nuove voci doganali sono entrate o entreranno a breve al 50%, con possibili estensioni a semiconduttori, farmaci e aeromobili.

La mossa Apple: investire per non pagare

Apple ha scelto la strada più semplice per essere “tariff-proof”: 100 miliardi di dollari di nuovi investimenti manifatturieri negli Usa, annunciati alla Casa Bianca il 6 agosto 2025, che portano a 600 miliardi l’impegno complessivo quadriennale. Tim Cook ha detto: “We’re going to keep building technologies… right here in America”, ha detto Tim Cook a Washington. Donald Trump ha ribadito il principio-guida: “There will be no tariff if they decide to build or manufacture products in our country”, ha dichiarato Donald Trump.

Un tassello simbolico è la decisione – resa pubblica lo stesso giorno – che tutto il vetro di copertura di iPhone e Apple Watch sarà prodotto a Harrodsburg, Kentucky, nello stabilimento Corning, con aumento dell’occupazione e investimenti ancillari.

La logica è lineare: incentivi (permessi accelerati, sconti fiscali locali, accesso a programmi federali) più la minaccia dei dazi abbassano il rischio politico di rimpatriare fasi della catena del valore. Resta però il nodo dei tempi (spostare supply chain complesse richiede anni) e dei costi: stime indipendenti indicano rincari importanti se l’assemblaggio completo degli iPhone migrasse davvero negli Usa.

Prezzi, famiglie e imprese: il conto arriva subito

Gli studi indipendenti convergono: i dazi sono, di fatto, tasse sui consumatori. Aggiornamenti al 7 agosto 2025 stimano un +1,8% del livello dei prezzi nel breve termine per l’insieme delle misure 2025, con impatto più regressivo sui redditi bassi; il costo medio per famiglia oscilla nell’ordine dei 1.300–2.200 dollari l’anno a seconda del decile di reddito e delle ipotesi.

Valutazioni aggiornate ad agosto 2025 quantificano in oltre 1.300 dollari per nucleo il prelievo medio nel 2025, in crescita nel 2026.

Sul lato macro, i dazi fanno cassa ma non risolvono il deficit: una nota del 6 agosto 2025 calcola 93,9 miliardi di dollari di entrate tariffarie da gennaio a giugno 2025, appena il 5% del disavanzo atteso a fine anno.

Le aziende spostano i listini: sono stati registrati aumenti su beni di largo consumo (carne, caffè, ferramenta) e segnalazioni da Walmart, Target e Best Buy su margini compressi. Risultato: prezzi più alti.

Europa e Italia tra tregua condizionata e vulnerabilità

Sul fronte transatlantico, Bruxelles ha negoziato una valvola di sicurezza: cornice Ue-Usa che punta a un cap al 15% complessivo sui beni europei, con un meccanismo che azzera l’extra-dazio dove il dazio MFN è già ≥ 15% e integra fino a 15% dove è inferiore. In cambio, l’Ue propone tagli tariffari su una serie di prodotti americani e acquisti settoriali (energia, difesa). È in discussione un percorso legislativo accelerato per cementare l’intesa e confermare il taglio dei dazi Usa sulle auto Ue dal 27,5% al 15%, come concordato tra le parti, con l'Europa che ha ceduto dimostrando la sua irrilevanza e divisione interna.

Per l’Italia il compromesso espone comunque comparti chiave: agroalimentare (a partire dal vino), moda, farmaceutica. Osservatori di settore parlano di decine di miliardi di export potenzialmente a rischio in assenza di ulteriori esenzioni di dettaglio.

La cornice legale: perché la Casa Bianca cambia base giuridica

Dopo i ricorsi contro i “dazi reciproci” basati su poteri d’emergenza economica, l’Amministrazione ha accentuato il ricorso alla Section 232 (sicurezza nazionale) per estendere e irrobustire i balzelli su acciaio, alluminio e altri settori: è una strada più solida in tribunale rispetto alla leva “emergenziale”.

La Casa Bianca rivendica finalità di sovranità economica e re-industrializzazione. Come affermato, “There will be no tariff if they decide to build… in our country”, ha ribadito Donald Trump, e l’ordine del 31 luglio scandisce sanzioni anti-transshipment fino al 40% per chi elude le regole via triangolazioni.

Il punto: chi detta il ritmo

La combinazione dazi universali + fine del de minimis + Section 232 non è una parentesi: è un reset strutturale delle catene del valore, con due effetti chiari. Primo: spinta a investire on-shore (Apple è il caso scuola) o almeno a “americanizzare” i componenti più sensibili. Secondo: rialzo secco dei prezzi e oneri di compliance che penalizzano i consumatori, in particolare i redditi bassi, e le Pmi che importano componenti. Le tregue negoziate con l’Ue attenuano l’urto, ma non lo annullano: il 15% diventa il nuovo pavimento per moltissimi flussi, con margini sottili per chi esporta beni a basso valore aggiunto.

Tradotto: nel breve, gli Stati Uniti dettano il ritmo e il resto del mondo balla. Chi ha scala e cassa (Apple) compra un biglietto di prima fila. Gli altri dovranno cambiare musica in fretta — oppure pagare.

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