Le 40 barche della Global Sumud scortate ad Ashdod, detenuti e rimpatri imminenti. Giallo sulla Mikeno, ipotesi ingresso in acque di Gaza. Tel Aviv parla di operazione “esemplare”, gli attivisti rivendicano il successo mediatico.
Il porto di Ashdod si è trasformato all’alba in un palcoscenico inatteso. Una dopo l’altra, quaranta imbarcazioni della Global Sumud Flotilla sono entrate in rada con equipaggi israeliani a bordo e vele ammainate, nel giorno più sacro del calendario ebraico. Sui ponti, al posto degli striscioni, bandiere israeliane issate dai commando dopo gli abbordaggi; su alcuni scafi, ancora leggibili le scritte “Free Palestine” e “Free Gaza”.
La colonna di barche intercettate è arrivata con scaglionamenti e alcuni traini. All’appello manca la Mikeno: per gli organizzatori avrebbe sfiorato o varcato le acque attribuite a Gaza, ipotesi che l’esercito smentisce. I commando di Shayetet 13 hanno effettuato gli abbordaggi in mare aperto, schermando le comunicazioni e prendendo il controllo senza feriti.
Gli attivisti—tra cui parlamentari europei, giuristi e sanitari—sono stati identificati e trasferiti verso il carcere di Ketziot. Qui dovrebbero partire le espulsioni per chi firmerà i documenti, mentre per chi rifiuta è previsto il processo per ingresso illegale. Gli avvocati di Adalah denunciano tempi stretti e ostacoli di calendario: “Stiamo verificando condizioni di salute e accesso alla difesa; la mole di fermati e le festività complicano tutto”, afferma una legale.
A Gerusalemme il governo rivendica il risultato. Il ministro della Difesa Israel Katz parla di operazione “esemplare” e sottolinea che nessuna nave—eccetto il caso controverso della Mikeno—ha raggiunto Gaza. La linea ufficiale ribadisce: “Gli aiuti passano per canali controllati”.
Gli organizzatori, al contrario, dichiarano di aver centrato l’obiettivo simbolico: “Non abbiamo vinto in miglia nautiche, ma in attenzione globale”. Le proteste si accendono in varie capitali europee, mentre giuristi e governi tornano a discutere di diritto del mare e blocco navale. Il paragone con la Mavi Marmara del 2010 è inevitabile: stavolta nessun morto, nessun ferito.
Resta da chiarire il destino dei carichi—alimenti, medicinali, materiale sanitario—non distrutti. Tra le ipotesi, l’affidamento al Patriarcato latino di Gerusalemme per un eventuale convoglio terrestre. Finché non si superano Yom Kippur e Shabbat, ogni decisione è rinviata. Le imbarcazioni sono state dirottate su un ormeggio di lungo periodo dentro l’approdo.
Cosa resta della traversata
Il nodo giuridico resta aperto: è legittimo interdire in alto mare una flottiglia che dichiara fini umanitari? Israele richiama le regole del blocco navale e sostiene di aver offerto alternative; i critici parlano di punizione collettiva e disproporzione. In mezzo, la cronaca: centinaia di fermati, processi lampo, divieti di reingresso lunghissimi.