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Seconda Flotilla, chi c’è a bordo: anche luminari della medicina

- di: Marta Giannoni
 
Seconda Flotilla, chi c’è a bordo: anche luminari della medicina
Chi sono i protagonisti della seconda Flotilla verso Gaza
Dalla psichiatra Veronica O’Keane ai chirurghi in rotta verso Gaza: profili, motivazioni e rischi di una missione che unisce accademia, corsie d’ospedale e attivismo civile.

La seconda Freedom Flotilla non è solo un convoglio navale. È un gesto collettivo di resistenza civile e una prova di coscienza globale. A bordo delle nove imbarcazioni dirette verso Gaza si trovano medici, infermieri, psicologi, ricercatori, docenti universitari e attivisti di oltre venti Paesi. Persone che hanno deciso di mettere tra parentesi carriere e famiglie per affrontare un viaggio incerto, nella convinzione che l’etica professionale non possa fermarsi di fronte a un blocco navale.

La missione è stata organizzata dalla Freedom Flotilla Coalition, con la nave ammiraglia Conscience trasformata in una sorta di ospedale galleggiante. Nei container e nelle stive: più di una tonnellata di farmaci, respiratori, disinfettanti, garze e alimenti terapeutici. Ogni confezione è catalogata con cura: un inventario della speranza in un mare che, da mesi, è diventato simbolo di interdizione e paura.

Veronica O’Keane, la cattedra che scende in stiva

Tra le figure più emblematiche c’è Veronica O’Keane, psichiatra e docente emerita del Trinity College di Dublino. Lontana dal linguaggio dei convegni accademici, O’Keane ora trascorre le sue serate sotto coperta, inventariando scatole di farmaci e disinfettanti. La sua esperienza nella cura dei disturbi post-traumatici da stress si intreccia con la sua nuova missione sul campo: prendersi cura di chi vive il trauma quotidiano di un conflitto senza tregua.

“Da due anni provo a entrare a Gaza per mettere la mia professionalità al servizio di chi subisce un genocidio: centinaia di migliaia di persone traumatizzate hanno bisogno di assistenza”, racconta con la serenità di chi ha scelto consapevolmente la frontiera come luogo di lavoro. È una scienziata abituata ai laboratori e ai congressi internazionali, ma ora il suo laboratorio è una nave che naviga nel buio, circondata da droni.

Chirurghi e anestesisti in prima linea

Con O’Keane viaggiano Mohamed Abhakis, chirurgo vascolare che ha lasciato tre figli a Strasburgo, e Marwan Obeid, anestesista giordano determinato a sostenere i colleghi rimasti negli ospedali della Striscia. Insieme a loro la ginecologa Fawza Moha Hassam, primaria in Malesia, e Diaa Adaoud, medico palestinese con cittadinanza statunitense, che teme non solo l’abbordaggio in mare, ma anche le conseguenze diplomatiche al rientro negli Stati Uniti.

La loro dichiarazione comune è diventata un manifesto morale: “In due anni di genocidio sono stati uccisi più di 1.500 medici; oltre 400 risultano scomparsi nelle carceri israeliane e almeno quattro sono morti durante la detenzione. Questo è un test per l’umanità: il mondo resterà inerme mentre una nave umanitaria viene fermata o si solleverà per spezzare le catene su Gaza?”.

Una missione di scienza e coscienza

Molti dei professionisti a bordo appartengono a quella generazione di medici che ha vissuto la pandemia e le sue conseguenze sociali. Hanno imparato a gestire il dolore collettivo, a operare sotto pressione, a trasformare la medicina in un gesto politico. Il loro impegno non nasce da militanze ideologiche, ma dal giuramento di Ippocrate, che impone di curare chiunque ne abbia bisogno, indipendentemente da passaporto o bandiera.

Nei turni di bordo, le specializzazioni si incrociano: anestesisti aiutano i pediatri, psichiatri si affiancano ai chirurghi, infermieri insegnano procedure d’urgenza ai volontari civili. Ogni giorno, tra un controllo e una riunione di coordinamento, le cabine si trasformano in microambulatori, mentre sul ponte si discutono scenari e protocolli. È una comunità temporanea, ma fortemente organizzata, dove ogni competenza diventa un pezzo di un piano più grande.

Volontari e operatori dal mondo

La seconda Flotilla accoglie persone provenienti da Europa, Medio Oriente, Asia e America. Ci sono volontari delle Ong, operatori di soccorso, esperti di logistica sanitaria e giornalisti. Alcuni hanno già partecipato a missioni di salvataggio nel Mediterraneo; altri arrivano da esperienze nei campi profughi del Libano o della Giordania. In comune hanno una determinazione: rompere l’isolamento di Gaza e dimostrare che l’assistenza medica non può essere considerata una minaccia.

Tra loro anche figure con profili culturali e accademici: pedagogisti specializzati nel recupero dal trauma infantile, psicoterapeuti, mediatori culturali. Una rete eterogenea che mescola sapere tecnico e compassione umana, costruendo un ponte tra la medicina e la solidarietà civile.

Le motivazioni: etica e disobbedienza

Chi sale su queste navi sa di sfidare non solo un blocco militare, ma un intero sistema politico. Molti dei partecipanti parlano di una scelta etica più che politica: un atto di disobbedienza civile in nome della vita. “Non possiamo restare nei nostri laboratori mentre i bambini muoiono senza anestesia”, ha dichiarato uno dei medici europei prima della partenza. “Curare è un gesto neutro solo in tempo di pace. In guerra, diventa una presa di posizione”.

Queste parole risuonano anche tra gli italiani presenti: Riccardo Corradini, Francesco Prinetti e Stefano Argenio, infermiere del San Giovanni di Roma, insieme a Elizabeth Di Luca, pedagogista esperta di trauma infantile. Loro, come molti altri, sanno che un ritorno a casa non è garantito, ma non per questo arretrano.

La vita di bordo: disciplina e tensione

A bordo si vive in condizioni spartane. I turni si alternano tra la cucina, la manutenzione e la preparazione dei kit medici. Niente comfort, poca connessione, e un silenzio rotto solo dal ronzio dei generatori. Quando i droni sorvolano le barche, cala un silenzio denso, quasi religioso. Qualcuno prega, altri continuano a catalogare scatole di antibiotici o a compilare schede dei pazienti che sperano di incontrare a Gaza.

In quelle ore la nave è una comunità mobile: scienza, fede e umanità si confondono in un rituale di concentrazione. Molti annotano diari, altri registrano video-testimonianze che, se la missione dovesse essere interrotta, serviranno a raccontare cosa significa portare aiuti sotto minaccia.

Cosa li attende

Se riusciranno ad arrivare, i membri della Flotilla si uniranno ai pochi ospedali rimasti operativi, dove i medici locali lavorano in condizioni al limite. Gli anestetici scarseggiano, i reparti pediatrici funzionano a intermittenza, e le cure psicologiche sono quasi inesistenti. In quelle corsie, anche poche ore di sostituzione possono salvare vite. Se invece verranno fermati, la loro presenza resterà un simbolo: la prova che la neutralità umanitaria resiste anche sotto le bombe. 

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