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Femminicidio a Correggio: quando l’abitazione si trasforma in luogo di morte

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Femminicidio a Correggio: quando l’abitazione si trasforma in luogo di morte

Ancora una volta, la cronaca restituisce l’immagine disturbante di una donna uccisa all’interno delle mura domestiche. Daniela Coman, 47 anni, romena, è stata trovata senza vita nella casa del compagno, a Prato di Correggio, nel Reggiano. Lui, italiano, è stato fermato nella notte dopo l’interrogatorio con l’accusa di omicidio. Un copione noto: lei straniera, lui italiano, relazioni asimmetriche, fragilità economiche e sociali che si saldano in un’escalation silenziosa e spesso invisibile.

Femminicidio a Correggio: quando l’abitazione si trasforma in luogo di morte

Secondo la letteratura sociologica sul femminicidio, i partner o ex partner sono responsabili di circa il 70% delle uccisioni di donne. Non si tratta solo di casi individuali, ma di una dinamica strutturale, in cui l’intimità viene trasformata in un sistema di dominio. La casa, luogo simbolico della protezione e degli affetti, diventa un confine chiuso, una trappola. Daniela viveva con il compagno, come tante donne che, anche in assenza di una rete familiare o istituzionale, rimangono legate per necessità, per affetto, per paura.

Il silenzio che precede la violenza
La morte di Daniela non arriva in un vuoto. Gli inquirenti indagano su eventuali precedenti segnali di violenza. Le statistiche ci dicono che quasi tutte le donne uccise avevano già subito maltrattamenti o minacce. Ma la denuncia spesso non basta: servono strumenti di protezione efficaci, supporto economico, possibilità concrete di ricostruirsi una vita. Troppo spesso, tutto questo manca. Anche in questo caso, solo l’autopsia dirà l’ultima parola, ma l’ipotesi dell’ennesimo femminicidio resta concreta.

Un fallimento collettivo

Ogni omicidio di una donna da parte di un uomo che diceva di amarla è un fallimento. Della società, delle istituzioni, delle comunità locali. Serve un salto di paradigma: smettere di considerare questi casi come “emergenze” e iniziare a leggerli come fenomeni culturali radicati, da estirpare con l’educazione, l’autonomia economica, la riforma degli strumenti di tutela. Daniela è solo l’ultima di una lunga lista, ma potrebbe essere la prima se finalmente cambiassimo prospettiva.

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