Il 44% d’Europa ha un titolo terziario, ma nel nostro Paese siamo al 31,6%: un divario che racconta molto del nostro futuro.
(Foto: Università La Sapienza di Roma, due neo laureate).
Il quadro europeo: una soglia alla portata
Nel 2024, tra i 25 e i 34 anni, un giovane su due in molte regioni europee ha completato studi terziari (ISCED 5-8). La media UE si attesta al 44%, vicino al traguardo del 45% fissato per il 2030. Dietro la media, però, emergono differenze profonde: le aree metropolitane e le capitali superano spesso il 57,5%, mentre le regioni periferiche più fragili restano sotto il 26,5%.
La mappa dei territori più istruiti coincide con gli hub dell’innovazione: Bruxelles, Copenaghen, Stoccolma, Dublino, Parigi, Madrid, Amsterdam, Vilnius e città universitarie come Utrecht e Groningen. Dove università, ricerca e impresa si parlano, l’istruzione terziaria diventa ascensore sociale e moltiplicatore di sviluppo.
Le aree in ritardo: periferie e bassa attrattività
Sul lato opposto, troviamo regioni con scarsa densità, economia poco diversificata e forte peso dell’agricoltura. Qui la quota di laureati tra i 25-34enni resta bassa e la distanza dalle città-centrali non si riduce. La formazione professionale è spesso la via prevalente: scelta che può essere efficace, ma che in molti casi nasce più dalla necessità che da un orientamento consapevole.
Il caso italiano: un divario interno che persiste
L’Italia resta sotto la media europea con una quota di giovani laureati che si ferma al 31,6%. La frattura tra Nord e Sud è netta: nelle regioni meridionali la percentuale scende attorno a uno su quattro, mentre nel Nord e nel Centro il dato è più vicino agli standard europei. Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte e Trentino-Alto Adige mostrano risultati migliori, trainati da sistemi universitari più solidi e dall’integrazione con il tessuto produttivo.
In alcune aree, come Sicilia e Sardegna, la quota di giovani con titolo terziario resta sotto la soglia del 26,5%. L’effetto combinato di poche occasioni di lavoro qualificato, maggiore distanza dagli atenei e mobilità ridotta scoraggia l’investimento in studi lunghi.
Perché restiamo indietro
Il ritardo italiano è legato a tre fattori: disuguaglianze territoriali, divari sociali e un limitato aggancio tra università e imprese. L’origine familiare pesa: dove mancano riferimenti e risorse, la probabilità di proseguire oltre il diploma diminuisce. Nel Mezzogiorno, la debolezza delle infrastrutture e la scarsa domanda di lavoro qualificato alimentano un circolo vizioso.
A questo si aggiunge la mobilità selettiva: migliaia di giovani si spostano per studiare o lavorare, soprattutto dal Sud verso Nord e Centro. Il saldo negativo priva i territori più fragili di capitale umano e rende più difficile raggiungere gli obiettivi europei.
Le leve per colmare il gap
Rafforzare gli atenei nelle aree periferiche con corsi allineati al tessuto produttivo locale, poli decentrati e servizi abitativi. Creare incentivi alla permanenza e al rientro: borse di studio più generose, dottorati mirati, agevolazioni fiscali per chi rientra. Connettere formazione e lavoro con stage, tirocini qualificati, contratti di ricerca, incubatori e trasferimento tecnologico. Sostenere le famiglie più fragili con misure che riducano gli ostacoli economici e informativi all’accesso universitario.
La posta in gioco
Non si tratta di “laureare tutti”, ma di offrire opportunità reali e diffuse. Se l’Italia non riduce il divario tra aree forti e aree deboli, rischia di restare indietro nella competizione della conoscenza che guida la crescita europea. Portare i giovani all’università, e soprattutto dall’università al lavoro qualificato, è la condizione per trasformare il titolo in benessere collettivo.