Hamas annuncia liberazione di un ostaggio e "progressi" per una tregua: oggi Witkoff in Israele
- di: Redazione

A Gaza, il cielo non ha più colore. È coperto dal fumo dei bombardamenti, dal pianto dei sopravvissuti e dall’odore acre della carne bruciata. Eppure, tra le macerie, Hamas annuncia che un soldato israeliano con cittadinanza americana, Edan Alexander, sarà liberato entro 48 ore. Un gesto che si inserisce in uno scenario che somiglia più a uno sterminio che a una guerra. Lo conferma al-Jazeera, rilanciando le dichiarazioni del gruppo islamista: da giorni sarebbero in corso colloqui diretti con gli Stati Uniti, e il cessate il fuoco potrebbe non essere più solo un’ipotesi. Ma intanto, ogni ora che passa, si contano nuovi cadaveri. E a morire sono soprattutto donne, bambini e civili palestinesi, schiacciati in un assedio che non lascia vie di fuga.
Hamas annuncia liberazione di un ostaggio e "progressi" per una tregua: oggi Witkoff in Israele
Quello che si consuma nella Striscia da mesi ha ormai superato i confini del diritto bellico e dell’etica. Interi quartieri cancellati, famiglie sterminate, ospedali trasformati in trappole. Non è più solo una rappresaglia o una strategia militare: è un’operazione sistematica di annientamento. Le cifre diffuse dalle organizzazioni umanitarie parlano di decine di migliaia di vittime civili, ma nei numeri si perde il senso del dolore. Gaza è diventata una camera a gas a cielo aperto, senza acqua, elettricità né vie di soccorso. Mentre si annuncia la liberazione di un soldato, restano sepolte sotto i detriti centinaia di famiglie. E la retorica dell’autodifesa israeliana non riesce più a coprire l’odore insopportabile dell’ingiustizia.
Il ruolo americano e l’ostaggio al centro del calcolo
La diplomazia americana, incarnata dall’inviato Steven Witkoff atteso oggi in Israele, si muove attorno al destino di un cittadino con doppio passaporto. La richiesta ufficiale è che, oltre ad Alexander, vengano restituiti anche i resti di altri quattro statunitensi uccisi. Ma il messaggio che passa è un altro: la vita di un soldato vale un viaggio presidenziale, una trattativa riservata, una pausa nei bombardamenti. La vita di migliaia di palestinesi no. Questa asimmetria morale e politica è il cuore marcio del conflitto. Washington torna a muoversi, ma senza mettere in discussione la macchina di morte che Tel Aviv ha messo in funzione da mesi.
Il nodo degli aiuti e la fame come arma
Parallelamente al tema degli ostaggi, si discute della ripresa degli aiuti umanitari. Gaza è allo stremo: la fame, la sete, la mancanza di cure mediche hanno assunto i contorni di un genocidio per privazione. Le ONG parlano di neonati morti nei rifugi, di donne che partoriscono tra le macerie, di malati lasciati morire per mancanza di ossigeno. Hamas, consapevole del baratro, tenta di utilizzare la sua unica moneta negoziale – gli ostaggi – per forzare l’apertura di un corridoio umanitario. Israele, dal canto suo, valuta se accettare una tregua tecnica, limitata, forse utile anche per ridurre l’esposizione mediatica di una carneficina che rischia di ritorcersi contro, persino tra gli alleati.
Una tregua che non basta più
La tregua in discussione, se dovesse realizzarsi, non sarà la fine della guerra. Non restituirà le vite spezzate, non guarirà il trauma collettivo di un popolo che da 75 anni vive sotto occupazione, in esilio o sotto assedio. Ma potrebbe rappresentare almeno un temporaneo sollievo. Non una pace – parola troppo grande per questi tempi – ma un’interruzione dello sterminio. Un’interruzione negoziata sull’asse Washington-Doha-Gerusalemme, con il popolo palestinese ancora una volta spettatore del proprio destino.
Lo spettro della memoria e il futuro negato
Il popolo palestinese, oggi più che mai, non chiede vendetta. Chiede di essere visto, riconosciuto, salvato. Ma il linguaggio geopolitico non contempla le lacrime, e i vertici diplomatici si consumano tra sorrisi e comunicati, mentre a Gaza si seppelliscono bambini senza nome. La liberazione di un soldato può essere il primo tassello per arrestare la macchina dello sterminio, ma senza un cambio radicale della narrazione – e dei rapporti di forza – la tregua rischia di essere solo il prologo di un nuovo massacro. Perché in Palestina, il tempo della tregua è sempre anche il tempo della preparazione alla prossima offensiva.