Una doppia svolta che cambia il quadro: dall’ipotesi di una mega-base americana da 500 milioni di dollari a ridosso della Striscia, alla prima approvazione della pena di morte per i terroristi in Parlamento. In mezzo, la diplomazia che arranca, gli ostaggi ancora al centro e una crisi umanitaria che non si sblocca.
(Foto: il ministro israeliano estremista Itamar Ben-Gvir).
Linea gialla e progetti sul confine
Nel cuore del conflitto, prende corpo uno scenario che divide la Striscia tra un’area sotto controllo israeliano e una porzione lasciata a una gestione distinta lungo la cosiddetta Yellow line. In questo contesto è maturata l’ipotesi di una base internazionale a guida USA nei pressi del confine, concepita per ospitare fino a decine di migliaia di militari incaricati di vigilare sul cessate il fuoco e sulla stabilizzazione.
L’idea si aggancia a un dossier più ampio: garantire sicurezza al confine, monitorare i passaggi e contribuire alla ricostruzione. Resta però il nodo politico: chi metterà gli stivali sul terreno e con quale mandato, in un contesto dove la sovranità è tema sensibile e la fiducia reciproca scarseggia.
“Comunità sicure alternative” per gli sfollati
Accanto al capitolo militare, è avanzato il disegno di complessi residenziali temporanei per gli sfollati palestinesi lungo la linea di separazione: alloggi, centri medici, scuole e uffici amministrativi per ridare un minimo di continuità alla vita civile. L’impianto prevede verifiche di sicurezza e accessi “controllati”. Un primo banco di prova riguarda Rafah, con la bonifica di macerie e ordigni inesplosi nelle aree destinate ai nuovi quartieri.
Ma il paradosso resta: mentre si pianifica la ricostruzione, la catena degli aiuti è intermittente, e continuano le criticità su farmaci, vaccini e beni essenziali. Senza un corridoio umanitario stabile, ogni progetto rischia di rimanere sospeso.
Il nodo Hamas e lo stallo negoziale
Il percorso passa dalla questione più scabrosa: la resa dei miliziani rimasti nelle gallerie di Rafah e la definizione di un quadro politico di transizione. Finché non si scioglie questo punto, Fase due e Fase tre resteranno un miraggio. Sullo sfondo, la gestione degli ostaggi e delle salme non ancora riconsegnate, un tema che condiziona il calendario di ogni intesa.
La regione, intanto, ribolle di contatti e smentite. La domanda chiave resta sul tavolo: “Tutti vogliono che il conflitto finisca. La domanda è: come far funzionare le cose?”, ha osservato il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi.
Pena di morte: prima lettura e fratture interne
La Knesset ha dato il primo via libera alla proposta di pena capitale per chi uccide cittadini israeliani con finalità terroristiche. È un segnale politico fortissimo, sostenuto dai partiti dell’ultradestra che vedono nella misura un argine di deterrenza. Le organizzazioni per i diritti umani e parte dell’opposizione sottolineano invece le contraddizioni giuridiche e il rischio di una discriminazione sistemica.
Tra i sostenitori, c’è chi esulta: “Abbiamo mantenuto la promessa: la legge per la pena di morte ai terroristi supera il primo scoglio”, rivendica il ministro per la Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir. I critici replicano che una simile norma non ferma l’estremismo, e che potrebbe inasprire ulteriormente il clima interno e internazionale.
Il terremoto politico: il caso Dermer
Nel pieno del braccio di ferro parlamentare, arriva a sorpresa la dimissione del ministro degli Affari strategici Ron Dermer, uno dei più ascoltati consiglieri del premier. Pur lasciando il governo, continuerà a occuparsi di alcuni dossier di peso e a muoversi come inviato speciale. La mossa segnala tensioni interne su tempi, metodi e priorità della fase che si apre.
Le incognite: chi paga, chi guida, quanto dura
Anche nel caso in cui la base prendesse forma, restano tre interrogativi. Primo: quali Paesi accetteranno di inviare truppe sotto un cappello internazionale? Secondo: chi finanzierà davvero i costi di installazione e di gestione? Terzo: per quanto tempo si protrarrà la presenza sul terreno? Senza risposte chiare, la “soluzione di sicurezza” rischia di trasformarsi in un limbo operativo.
Che cosa cambia per civili e sicurezza
Per i civili, il punto è tornare a vivere: scuole, cure, lavoro. Per Israele, la priorità è neutralizzare le minacce e impedire che la Striscia torni a essere una piattaforma di attacchi. Per la comunità internazionale, l’obiettivo è stabilizzare e ridurre il rischio di escalation. La differenza la faranno trasparenza, verifiche indipendenti e un processo politico credibile, in grado di accompagnare i cantieri della ricostruzione.
Il punto: deterrenza, diplomazia, dignità
La combinazione di base al confine e pena di morte racconta un Paese che sceglie una linea di fermezza e un ritorno alla deterrenza. Ma una pace sostenibile non nasce solo da infrastrutture militari e leggi punitive: occorrono percorsi politici inclusivi, garanzie per i civili e un orizzonte di diritti condiviso. Senza questi ingredienti, la stabilità resterà apparente.