A fine 2024 l’export dei distretti agroalimentari italiani ha superato per la prima volta i 28 miliardi di euro. La crescita, pari al 7,1% rispetto all’anno precedente, conferma la capacità del made in Italy agricolo e alimentare di tenere il passo con le sfide globali. Ma questa fotografia scattata dal Monitor dei Distretti Agroalimentari Italiani di Intesa Sanpaolo rischia di appartenere già a un’epoca passata. Dal secondo trimestre del 2025, l’introduzione dei dazi Usa — solo parzialmente sospesi — ha aperto una nuova fase di incertezza per i produttori italiani più esposti ai mercati esteri.
L’Italia agroalimentare sfonda i 28 miliardi di export, ma il vento protezionista soffia dall’Atlantico
Sono state le filiere più strutturate e radicate nel territorio a trainare la performance. L’olio, prima fra tutte, ha registrato un balzo del 40,9% a prezzi correnti, con punte del +47,6% nel barese. Il distretto toscano ha guadagnato 419 milioni di euro in export, indirizzando oltre il 40% delle spedizioni verso gli Stati Uniti. Ma è proprio il mercato statunitense a destare ora le maggiori preoccupazioni. La crescita dell’export vitivinicolo, salita a 6,7 miliardi (+4%), mostra simili vulnerabilità: un quarto dei flussi è diretto negli Usa, con punte del 43% per Trento e oltre il 38% per Firenze e Siena. Il Prosecco di Conegliano-Valdobbiadene, simbolo planetario dell’Italia agroalimentare, esporta negli Usa il 27% della produzione.
Il Nord tiene, il Centro-Sud accelera
Dalla frutta dell’Alto Adige (+18,9%) all’ortofrutta romagnola (+14,9%), le regioni settentrionali consolidano un primato storico. Ma il Centro e il Sud si muovono: l’Olio umbro (+26,5%) e quello del barese mostrano una dinamica robusta, mentre i distretti della pasta e dei dolci del veronese e di Alba e Cuneo crescono a doppia cifra. Le conserve e le carni – comparti più maturi – segnano un +3,5% e +5,3% rispettivamente, con performance sopra la media per i salumi dell’Alto Adige (+13,9%).
Le cifre che inquietano: gli Usa come variabile geopolitica
Al di là dei numeri, ciò che emerge è un’Italia agroalimentare fortemente proiettata sui mercati internazionali. Ma anche estremamente dipendente da essi. La filiera del lattiero-caseario parmense, cresciuta del 31%, invia il 25% delle esportazioni oltreoceano. E quella sarda addirittura il 72%. Il rischio è evidente: da un giorno all’altro, una manovra protezionista o una tensione diplomatica può mettere in discussione segmenti cruciali dell’economia agricola nazionale.
L’illusione della linearità
La tentazione di leggere questi dati come parte di una traiettoria solida e crescente è forte. Ma sarebbe un errore. Il commercio internazionale è tornato a essere campo di battaglia geopolitica e il cibo non fa eccezione. Come dimostrano le nuove tariffe imposte dagli Stati Uniti, anche il prodotto più genuino può diventare oggetto di tensione strategica.
Oggi l’Italia dell’agroalimentare corre veloce. Ma ogni record battuto — ogni punto percentuale di crescita, ogni nuovo sbocco commerciale — resta vulnerabile. In un mondo che ha smesso di credere nella globalizzazione come dogma, la vera sfida non sarà esportare di più, ma proteggere ciò che si esporta. E farlo con la consapevolezza che i mercati, come le stagioni, possono cambiare senza preavviso.