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Lukoil vende gli asset esteri dopo le sanzioni Usa

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Lukoil vende gli asset esteri dopo le sanzioni Usa

Il colosso russo Lukoil ha annunciato che metterà in vendita i suoi asset internazionali dopo l’ultimo pacchetto di sanzioni deciso da Washington contro le principali compagnie petrolifere russe. Nel provvedimento figurano sia Lukoil sia Rosneft, che insieme coprono oltre il 55% dell’intera produzione petrolifera del Paese. Formalmente è un annuncio aziendale. In realtà è un passaggio politico cruciale della guerra economica tra Russia e Occidente.

Il Cremlino richiama il petrolio “a casa”. E ora la partita si sposta su chi comprerà

Lukoil parla di “misure restrittive che impediscono la gestione delle controllate in alcuni Stati”. Ma il succo è un altro: gli Stati Uniti hanno colpito il meccanismo di proiezione esterna che Mosca usa per incassare valuta forte, aggirare divieti bancari e continuare a finanziare – attraverso triangolazioni – la macchina militare. Il vero obiettivo non è la società, è il circuito che trasforma il petrolio in potere negoziale.

Più che uscire dai mercati, Lukoil viene “richiamata” entro la sfera russa
Per il Cremlino questa non è una ritirata, è un riposizionamento. L’Occidente toglie ossigeno alle filiali fuori orbita; Mosca sposta capitale e controllo verso territori amici o sotto diretto presidio politico. Già accaduto con Gazprom e Novatek: quando le sanzioni chiudono un corridoio, il Cremlino ne crea un altro, purché sia sotto influenza strategica e non dipendente da regole occidentali.

Ma il segnale è chiaro: la Russia è costretta a stringere il perimetro del suo impero energetico. Meno ramificazioni, più dipendenza dalla rete interna o da Paesi terzi che non temono ritorsioni USA. È un ripiegamento difensivo, ma non necessariamente una sconfitta: può diventare l’embrione di un mercato parallelo, non regolato dall’Europa.

Colpita non la produzione, ma il “polmone estero”
Perché questa mossa pesa? Perché gli asset fuori dalla Russia servono non solo a vendere petrolio ma a lavare geopoliticamente il greggio: cambiare bandiera, cambiare società di facciata, mescolarlo a forniture di altri Paesi, renderlo “meno russo” e quindi più commerciabile. Le sanzioni puntano al punto esatto della catena: la zona d’ombra, non i barili.

Washington lo sa: la leva economica non funziona se colpisce la vetrina, funziona quando spezza la rete logistica invisibile.

Rosneft + Lukoil: il baricentro del potere putiniano
Colpire entrambe significa far scricchiolare la cassa pubblica. Il sistema di potere costruito da Putin resiste finché alimenta fedeltà e rendite. Per questo gli Stati Uniti parlano di “spingere Mosca al negoziato”: non per il fronte di guerra, ma per il conto interno, quello che tiene tranquilli oligarchi e apparato.

Quando non si controlla più il rubinetto degli incassi, si comincia a negoziare. Non perché si vuole, ma perché non si può più comprare la stabilità politica.

La domanda vera: chi compra?
L’uscita dei russi dai mercati occidentali non significa che quegli asset spariranno. Il punto è chi subentra: fondi sovrani del Golfo, players turchi, capitali cinesi, consorzi “ponte” di Paesi che oscillano tra NATO e BRICS. È qui che si giocherà la partita.
Se il compratore sarà Pechino, Mosca accetterà dipendenza economica pur di mantenere continuità. Se sarà un Paese mediorientale, nascerà un asse energetico alternativo rispetto a quello europeo. In entrambi i casi, l’Occidente non rientra in campo.

L’unico vero prezzo per il Cremlino: perdere autonomia di manovra
La Russia può spostare il petrolio, ma non può spostare il baricentro geopolitico. Più vende asset all’estero, più dipende da pochi alleati solidi. Il Cremlino ha costruito per anni la narrativa dell’autarchia strategica. Le sanzioni dimostrano che, sul piano energetico, l’autarchia è un mito: il greggio deve viaggiare, e chi controlla i corridoi controlla anche la politica.

La vendita annunciata da Lukoil è dunque il sintomo di un conflitto che ha lasciato da tempo il fronte militare per entrare nella fase più lunga: quella delle riserve e dei flussi, degli alleati e dei compratori. Sono le guerre che non si vedono nei bollettini, ma che decidono se e quando il Cremlino potrà permettersi di negoziare.

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