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Manovra, salta l’emendamento da 3,5 miliardi: crepe nel governo

- di: Bruno Coletta
 
Manovra, salta l’emendamento da 3,5 miliardi: crepe nel governo
Manovra, salta l’emendamento da 3,5 miliardi: crepe nel governo

Manovra, salta l’emendamento da 3,5 miliardi: crepe nel governo. Le opposizioni chiedono le dimissioni di Giorgetti (nella foto il ministro in Parlamento con la presidente del consiglio, Giorgia Meloni).

La maggioranza si inceppa su pensioni e misure per le imprese: una parte trasloca in un nuovo testo, il resto slitta a decreto. Le opposizioni fiutano sangue e chiedono conto al ministro dell’Economia.

La scena è di quelle che, in Parlamento, fanno rumore anche quando nessuno alza la voce: il governo ritira il proprio emendamento da 3,5 miliardi collegato alla manovra, quello che avrebbe dovuto tenere insieme un pacchetto per le imprese e un capitolo delicatissimo sulla previdenza. Tradotto: il maxi-intervento non entra più “così com’è” nel testo della legge di Bilancio. Una parte delle misure viene ripescata dentro un altro emendamento, il resto viene rinviato a un provvedimento successivo, con tutta probabilità un decreto.

Politicamente è un segnale netto: nella maggioranza la convergenza non è stata trovata, e il cortocircuito – secondo le opposizioni – passa soprattutto dalla Lega. Il risultato, però, è concreto: cambiano tempi e binari di norme che toccano aziende, lavoratori e futuri pensionati.

Che cosa è successo, e perché conta

Il pacchetto “extra” era nato per aggiungere risorse e interventi in corsa, a manovra già inoltrata. Dentro c’era un mix: sostegni alle imprese (con strumenti e incentivi legati agli investimenti e alle aree economiche speciali), rimodulazioni di spesa e un capitolo previdenziale che ha acceso la miccia: stretta sulle pensioni anticipate e meccanismi legati alla previdenza complementare e al Tfr.

La politica, qui, pesa almeno quanto i numeri. Perché su pensioni e Tfr non si discute solo di coperture: si discute di identità dei partiti, consenso e platee sensibili. E infatti, nelle ore precedenti, le cronache registravano malumori e richieste di correzione, soprattutto sul tema della possibile retroattività di alcune misure.

Il bersaglio: pensioni, finestre e “nodo retroattività”

Il capitolo più esplosivo riguarda l’uscita anticipata dal lavoro e alcune regole collegate ai contributi. Nella bozza del pacchetto governativo era prevista una stretta progressiva che avrebbe spostato più avanti la decorrenza dell’assegno per chi va in pensione prima, agendo su meccanismi di attesa e calcolo. È su questo che, nelle ultime ore, si è incagliato il confronto interno.

Nel frattempo, dalla maggioranza sono spuntati anche emendamenti correttivi per limitare alcuni effetti nel tempo, circoscrivendoli alle richieste future e provando a disinnescare la polemica. La presidente del Consiglio, secondo le ricostruzioni, ha chiesto esplicitamente una correzione che escludesse colpi di mano retroattivi: una mossa che, da sola, dice quanto fosse diventato politicamente tossico il tema.

Il secondo fronte: Tfr e previdenza complementare

Nello stesso pacchetto c’era un’idea destinata a far discutere a lungo: spingere più lavoratori verso la previdenza complementare con un meccanismo di adesione automatica per i neoassunti, lasciando una finestra temporale per scegliere diversamente. In sostanza, una spinta “di default” che cambia l’inerzia: se non decidi, entri.

È una delle misure che più dividono perché tocca contemporaneamente libertà di scelta, costi per le imprese, ruolo dei fondi e rapporto tra previdenza pubblica e complementare. E in un passaggio già congestionato come la manovra, è bastato poco per trasformarla in un detonatore politico.

Imprese: Transizione, Zes e incentivi (ma con tempi che slittano)

Il pacchetto da 3,5 miliardi era nato anche per rispondere alle pressioni del mondo produttivo: rifinanziamenti, proroghe e strumenti per investimenti e competitività, con riferimenti a Transizione 5.0, iperammortamento e Zes. Sullo sfondo c’è l’esigenza del governo di non lasciare scoperto il fronte industriale, soprattutto in un momento in cui le imprese chiedono certezze e calendari.

Il ritiro dell’emendamento, però, significa che non tutto viaggia più dentro la legge di Bilancio con la stessa immediatezza. Se una parte delle misure verrà reincardinata subito in un altro emendamento, un’altra parte – quella “messa da parte” – dovrà passare per un decreto: tempi diversi, testo diverso, e soprattutto un’altra partita politica.

Ponte sullo Stretto e Pnrr: le poste che pesano nei retroscena

Nel pacchetto comparivano anche interventi che, per natura, diventano immediatamente simbolici: la riprogrammazione di risorse legate al Ponte sullo Stretto e disposizioni su rimodulazioni del Pnrr. Anche quando tecnicamente si parla di spostare stanziamenti su annualità diverse, l’effetto mediatico è inevitabile: “si tocca il Ponte” significa accendere un faro.

Ed è proprio questa miscela – imprese, previdenza, grandi opere, Pnrr – ad aver reso l’emendamento un corpo estraneo difficile da digerire in tempi parlamentari stretti.

Opposizioni all’attacco: “diktat” e richiesta di dimissioni

Le opposizioni non hanno perso un secondo: per loro il ritiro è la prova plastica che la maggioranza si è bloccata su una resa dei conti interna. Il Pd parla di un governo che si smentisce e di un emendamento “svuotato”; Italia viva alza il tiro e mette direttamente nel mirino il ministro dell’Economia; il M5s insiste sul fatto che non sia emerso nulla di nuovo, ma solo un conflitto politico; Avs denuncia lo stralcio di pezzi considerati centrali come previdenza complementare e misure per le aree economiche.

La frase che fotografa la postura delle opposizioni è questa: il pacchetto è saltato per una questione politica interna. E, su questo, la polemica è diventata immediatamente personale: “Giorgetti si dimetta”, è l’affondo più duro pronunciato nelle ore del ritiro.

Cronoprogramma: cosa succede adesso in Parlamento

Il ritiro non chiude la vicenda, la sposta. Il ddl Bilancio è già in calendario e il governo ha annunciato la fiducia sul maxi-emendamento: un passaggio che, per definizione, accelera e taglia il dibattito, ma impone anche che il testo arrivi in modo ordinato e “blindato”.

Il punto è qui: se il pacchetto da 3,5 miliardi diventa due cose diverse – un emendamento riformulato e un decreto successivo – si apre un doppio percorso. Da una parte, la manovra deve chiudere nei tempi costituzionali; dall’altra, il decreto (se confermato) dovrà trovare spazio politico e tecnico, con coperture, relazioni e una nuova trattativa nella maggioranza.

Il vero tema: credibilità e catena di comando

Al netto dei contenuti, la partita lascia una domanda secca: chi decide davvero l’ultima parola sulla manovra? Perché portare in Parlamento un pacchetto da miliardi e poi ritirarlo in corsa significa esporre l’esecutivo a un’accusa precisa: instabilità decisionale.

In questa manovra la politica economica si intreccia con la politica pura: rapporti tra partiti, nervi scoperti su pensioni e Tfr, e una narrazione – per il governo complicata – di “correzioni delle correzioni”. Non è un inciampo tecnico: è un braccio di ferro che, adesso, pretende un testo nuovo e un compromesso vero. Il resto è solo rumore. Ma un rumore che, in Aula, si sente benissimo.

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