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Cripto al 33%, l’Italia rischia la fuga di capitali

- di: Bruno Coletta
 
Cripto al 33%, l’Italia rischia la fuga di capitali
Cripto al 33%, l’Italia rischia la fuga di capitali
La manovra 2026 conferma l’aliquota al 33% sulle cripto e apre un corridoio agevolato per le stablecoin in euro. Ma tra norme ancora in evoluzione, concorrenza fiscale europea e investitori sempre più mobili, il rischio è che a pagare il conto siano startup, risparmiatori e trasparenza del mercato.

Dal 2026 l’Italia diventerà uno dei Paesi più severi in Europa nella tassazione delle cripto-attività. La traiettoria è stata fissata con la Legge di Bilancio 2025: fine della soglia di esenzione da 2.000 euro e incremento dell’imposta sostitutiva sulle plusvalenze dal 26% al 33%. La nuova manovra per il 2026 non cambia rotta, ma introduce un’eccezione importante: un regime più favorevole per i token di moneta elettronica denominati in euro, le cosiddette stablecoin in euro.

Il governo rivendica l’obiettivo di rafforzare l’area euro e di riportare sotto il cappello comunitario una parte della finanza digitale oggi dominata da dollaro e grandi piattaforme globali. Ma il combinato disposto tra aliquota al 33%, incertezza applicativa e concorrenza fiscale di altri Paesi rischia di trasformare l’Italia in un terreno poco ospitale per chi innova nel mondo cripto.

Una stretta che cambia le regole del gioco

Con la riforma varata per il 2025, le plusvalenze da cripto-attività sono entrate a pieno titolo nel perimetro delle rendite finanziarie, con una aliquota del 26% per il 2025 e la previsione di salire al 33% dal periodo d’imposta 2026. Contestualmente è stata eliminata la vecchia franchigia sui primi 2.000 euro di guadagni, estendendo il prelievo anche ai piccoli investitori.

La bozza di Legge di Bilancio 2026 conferma questa impostazione per la quasi totalità degli asset digitali: Bitcoin, Ethereum, NFT, stablecoin ancorate al dollaro e alla sterlina restano nell’area del 33%. L’unica vera novità è il trattamento differenziato per una categoria ben precisa: i token di moneta elettronica ancorati all’euro, emessi secondo le regole del regolamento europeo sui mercati delle cripto-attività (MiCAR).

Per queste ultime, la manovra prevede che plusvalenze e proventi continuino a essere tassati al 26% anche dopo il 1° gennaio 2026. Una scelta che costruisce, di fatto, un regime “duale”: da un lato le cripto tassate al 33%, dall’altro le euro-stablecoin con un’aliquota più bassa e stabile.

Stablecoin in euro, il nuovo terreno di scontro

L’idea politica è chiara: usare le stablecoin in euro come leva per rafforzare il ruolo della moneta unica nel mondo digitale. Se le famiglie e le imprese fossero incentivate a detenere attività denominate in euro – anziché in dollari – aumenterebbe strutturalmente la domanda di strumenti in euro, con possibili effetti positivi anche sul finanziamento del debito pubblico.

In questo schema, le euro-stablecoin diventano una sorta di interfaccia tra risparmiatori digitali e strumenti tradizionali come i titoli di Stato: dietro il token ci sono riserve in euro, spesso composte proprio da Btp e altri bond sovrani. Meno interesse da pagare sul debito, maggiore profondità del mercato, più appeal internazionale per la moneta unica: questo è il racconto che accompagna la scelta di mantenere il 26% su questa asset class.

Il problema è che la realtà tecnologica corre più veloce delle norme. Oggi l’offerta di vere stablecoin regolamentate in euro è ancora limitata rispetto alle grandi stablecoin in dollari, e non è affatto scontato che la sola leva fiscale basti a ribaltare i rapporti di forza in tempi brevi. Nel frattempo, il resto del mercato cripto italiano si troverà a fare i conti con un’aliquota tra le più alte del continente.

Perché il 33% fa paura agli investitori

La stretta fiscale arriva in un momento in cui il mercato italiano delle cripto è già in fase di assestamento. Secondo gli ultimi dati comunicati dall’Organismo degli agenti e dei mediatori, i clienti che detengono valute virtuali presso operatori vigilati sono intorno a 1,4 milioni, con un controvalore di circa 1,9 miliardi di euro. Numeri non marginali, ma lontani dai picchi di interesse registrati nei momenti di euforia speculativa.

Su questo zoccolo duro di investitori si abbatterà l’aumento di aliquota. Molti di loro si sono già abituati a dichiarare le proprie posizioni, a utilizzare intermediari italiani o europei, a convivere con regole più stringenti di monitoraggio fiscale. Ora, però, la prospettiva di versare un terzo delle plusvalenze allo Stato cambia il calcolo di convenienza.

“Se la percezione è di essere puniti proprio perché si è scelto di restare nel perimetro regolare, il messaggio che passa è devastante”, osserva un consulente fiscale che segue diversi piccoli risparmiatori. Il rischio concreto è un ritorno alla “opacità di difesa”: piattaforme non europee, strutture societarie all’estero, o semplice ritiro in modalità di self custody, lontano da ogni tracciamento istituzionale.

La concorrenza fiscale dell’Europa

Il tema non è solo quanto si tassa, ma anche dove. La mobilità digitale rende più semplice per trader evoluti, sviluppatori e startup spostare sede e residenza fiscale. In diversi Paesi europei il quadro resta più morbido rispetto alla futura Italia al 33%.

In Germania, per esempio, le plusvalenze da cripto possono essere esentate se l’asset è detenuto per più di un anno, trasformando le posizioni di lungo periodo in investimenti di fatto tax free per i privati. In Portogallo, dopo le modifiche degli ultimi anni, i guadagni a breve termine sono tassati ma restano esenti quelli realizzati oltre i dodici mesi di detenzione, rendendo il Paese ancora competitivo per chi pianifica in ottica pluriennale.

In Francia è in vigore una flat tax complessiva intorno al 30% sulle plusvalenze finanziarie, cripto comprese, mentre in Spagna si applica una scala progressiva che nella fascia intermedia oscilla tra il 19% e il 28% sui capital gain. In questo contesto, un’aliquota secca al 33% proietta l’Italia nella parte alta della curva europea, a parità – se non con maggiore – complessità burocratica.

“Chi può delocalizzare le proprie attività, che si tratti di un team di sviluppo o di un trader professionale, confronterà inevitabilmente non solo le aliquote, ma anche la chiarezza e la stabilità delle regole”, fa notare un avvocato specializzato in diritto finanziario europeo. Il rischio è di vedere emigrare proprio i soggetti più strutturati, lasciando sul territorio solo investitori occasionali e operatori meno innovativi.

Startup fintech e registro Oam sotto pressione

La stretta fiscale arriva mentre l’ecosistema cripto italiano è già chiamato a rispettare la disciplina del registro dei prestatori di servizi su valute virtuali, gestito dall’Oam. Negli ultimi report si registra una riduzione del numero di operatori e una contrazione dei volumi in gestione, segnale di un mercato che sta selezionando gli attori più solidi ma anche di una certa fatica a crescere all’interno dei confini nazionali.

Per una startup fintech che opera su blockchain, scegliere l’Italia significa ormai confrontarsi con tre livelli di complessità: requisiti prudenziali sempre più stringenti, la piena implementazione del regolamento MiCAR e, appunto, una tassazione inasprita. Non è un caso che molte giovani imprese guardino con interesse a giurisdizioni dove il carico regolatorio è elevato ma accompagnato da incentivi fiscali o sandbox dedicati all’innovazione.

“La sensazione diffusa è che l’Italia guardi al settore cripto più come a una base imponibile da cui estrarre gettito che come a un laboratorio di innovazione da coltivare”, sintetizza l’imprenditore alla guida di una piattaforma specializzata in servizi su asset digitali. In questo quadro, l’agevolazione per le stablecoin in euro rischia di essere percepita come una nicchia tecnica, troppo limitata per invertire il sentiment complessivo.

L’eccezione euro-stablecoin è sufficiente?

Il regime al 26% per i token di moneta elettronica denominati in euro è senza dubbio il punto più originale della manovra. La scelta di premiare chi sceglie strumenti ancorati alla moneta unica, a riserva piena e regolamentati, va nella direzione indicata dal regolatore europeo, che con MiCAR ha costruito un perimetro stringente proprio per questo tipo di emissioni.

Il nodo, però, è il rapporto tra dimensioni del segmento agevolato e ampiezza del resto del mercato. Oggi la gran parte della liquidità si concentra ancora su token “non europei”: criptovalute native delle principali blockchain, stablecoin in dollari, strumenti ibridi che rispondono a logiche globali più che domestiche. Fino a quando le euro-stablecoin non avranno raggiunto una massa critica, l’effetto incentivante dell’aliquota al 26% rischia di restare più teorico che reale.

Non solo. Alcuni esperti spingono per un passo ulteriore: se l’obiettivo è favorire strumenti che finanziano direttamente o indirettamente il debito pubblico in euro, perché non valutare una tassazione ancora più bassa, per esempio al 12,5%, allineandola a quella dei titoli di Stato? Sarebbe un segnale forte di politica industriale e finanziaria, in coerenza con la narrazione che lega stablecoin in euro e sostenibilità del debito sovrano.

Trasparenza contro oscurantismo fiscale

Un altro punto critico riguarda il rapporto tra fisco e trasparenza. L’innalzamento dell’aliquota senza un contestuale salto di qualità nella chiarezza delle regole operative rischia di produrre il risultato opposto a quello dichiarato. Operazioni di cambio tra cripto diverse, movimentazioni tra wallet personali, utilizzo di protocolli decentralizzati: sono tutti ambiti in cui la linea di demarcazione tra operazione tassabile e neutra è ancora poco definita agli occhi di molti contribuenti.

In assenza di un quadro semplice e stabile, un’aliquota al 33% può essere percepita come una forma di “penalizzazione punitiva”, che incentiva a sottrarsi al perimetro ufficiale anziché collaborare con l’amministrazione finanziaria. Al contrario, un sistema basato su istruzioni chiare, aliquote competitive e controlli mirati sugli abusi potrebbe favorire un’adesione spontanea più ampia, aumentando nel medio periodo sia il gettito sia la qualità delle informazioni disponibili alle autorità.

In questa prospettiva, diversi operatori invocano la creazione di un tavolo permanente tra governo, autorità di vigilanza e associazioni di settore, capace di affrontare in modo sistematico i nodi interpretativi: dalla definizione di plusvalenza su protocolli DeFi all’inquadramento delle attività di staking, dal trattamento dei token non fungibili alla valutazione dei casi di perdita di chiavi private.

Che cosa servirebbe per non perdere il treno

L’Italia non è obbligata a scegliere tra controllo e innovazione. Può, al contrario, sfruttare la fase di implementazione di MiCAR per costruire un ecosistema digitale credibile: regole certe, tutela degli investitori, ma anche spazi di sperimentazione e una fiscalità che non scoraggi chi decide di restare nel perimetro legale.

In questo senso, tre linee di intervento emergono con forza:

Primo: valutare un rinvio o una modulazione dell’aliquota al 33%, almeno per alcune categorie di investitori o per le posizioni detenute oltre un certo orizzonte temporale, in modo da non penalizzare il risparmio di lungo periodo rispetto alla pura speculazione.

Secondo: rafforzare il dialogo strutturato con gli operatori italiani, che sono la principale fonte di dati e competenze per intercettare fenomeni di riciclaggio, frodi e abusi, invece di spingerli verso l’irrilevanza a vantaggio dei grandi colossi internazionali.

Terzo: trasformare il corridoio agevolato per le euro-stablecoin in un vero pilastro industriale della politica economica, agganciandolo alla strategia sul debito pubblico, allo sviluppo del mercato dei capitali in euro e alle iniziative sul futuro euro digitale.

“Il mondo cripto non aspetta i tempi della politica: o si offre un contesto competitivo e affidabile, oppure capitali e talenti cercheranno altrove il proprio orizzonte”, avverte un manager che segue progetti blockchain in più Paesi europei. L’aliquota al 33% dal 2026 non è solo una riga in più nel Modello Redditi: è un segnale sul posto che l’Italia vuole – o non vuole – occupare nel nuovo ecosistema finanziario globale.

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