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Lula piega i dazi di Trump, l’Europa resta a guardare

- di: Bruno Coletta
 
Lula piega i dazi di Trump, l’Europa resta a guardare
La retromarcia di Washington sui dazi alimentari premia la fermezza del Brasile e svela il boomerang delle tariffe di Trump, che alimentano l’inflazione e lo logorano nei sondaggi. Lula (foto) esulta, mentre l’Unione europea ha firmato un accordo al ribasso e Ursula von der Leyen si eclissa, lasciando dietro di sé un’ombra sulla credibilità della sua presidenza.

Nel Salone dell’Auto di San Paolo, con i riflettori puntati sull’industria che traina da anni l’economia brasiliana, Luiz Inácio Lula da Silva ha potuto concedersi un sorriso largo: gli Stati Uniti hanno annunciato il taglio dei dazi, fino al 40%, su una serie di prodotti chiave dell’export verde-oro – carne bovina, caffè, frutta, legname. È la conferma che la linea della fermezza sta pagando: nessuna resa di principio, nessuna rincorsa al compromesso al ribasso, ma una negoziazione lunga, spesso aspra, in cui Brasilia ha tenuto la guardia alta mentre a Washington i conti della guerra dei dazi cominciano a non tornare più.

Trump aveva promesso agli americani che i dazi sarebbero stati la bacchetta magica: meno importazioni, più posti di lavoro, deficit commerciale in calo e inflazione sotto controllo. Invece sta succedendo il contrario. L’ondata di tariffe introdotte nel 2025 – un dazio di base del 10% su quasi tutte le importazioni, più sovrattasse mirate su centinaia di prodotti – ha spinto verso l’alto il costo di una parte crescente del carrello della spesa. Il risultato è un paradosso politico perfetto: il presidente che era tornato alla Casa Bianca promettendo di “punire chi fa il furbo con l’America” si ritrova oggi accusato proprio di aver presentato il conto ai consumatori statunitensi.

La guerra dei dazi che alimenta l’inflazione

Il meccanismo è semplice, e spietato. Quando la Casa Bianca alza i dazi, le imprese importatrici pagano di più per far arrivare negli Stati Uniti beni e materie prime. Una parte di quel costo può essere assorbita dai margini, ma prima o poi finisce sullo scontrino. Studi recenti mostrano che l’escalation tariffaria del 2025 ha innalzato il livello generale dei prezzi negli Usa di oltre due punti percentuali in poco tempo, con un impatto particolarmente pesante su beni di consumo e su alimenti come carne, caffè, frutta e derivati.

Per mesi l’amministrazione ha ripetuto che avrebbero pagato “gli altri”, i produttori stranieri. Ma la realtà economica è ostinata. I salari stagnano, la spesa al supermercato lievita, le famiglie più fragili sono costrette a tagliare sul cibo e sulle bollette. Alla fine, persino la Casa Bianca è stata costretta a riconoscere che il fronte alimentare era diventato politicamente tossico. Da qui la decisione di abbassare i dazi su un paniere di prodotti agroalimentari che gli Stati Uniti non riescono a produrre in quantità sufficiente, o che i consumatori pretendono a prezzi accessibili.

La mossa è stata presentata come un gesto “tecnico”, legato alla domanda interna e alla capacità produttiva americana. Ma nessuno, né nei mercati né nelle cancellerie, ha avuto dubbi sulla vera motivazione: contenere l’inflazione alimentare prima che travolga definitivamente la popolarità del presidente. E qui entra in scena Lula.

Perché Lula ha tenuto il punto

Il leader brasiliano non si è limitato a commentare con soddisfazione la retromarcia di Washington. Dal palco di San Paolo ha ricordato, con tono più ironico che diplomatico, i mesi in cui il Brasile veniva trattato alla stregua di un bersaglio qualsiasi della crociata di Trump contro le importazioni. Oggi, il cambio di passo è evidente: Brasilia non si presenta come cliente supplice, ma come potenza agroalimentare indispensabile per tenere bassi i prezzi sul mercato mondiale.

Lula ha rivendicato il lavoro svolto sul piano internazionale: missioni all’estero, dialogo con i grandi investitori, difesa delle filiere agricole brasiliane e approvazione di una riforma tributaria che dal 2027 dovrebbe semplificare il sistema fiscale e rendere più trasparenti gli incentivi. In questo contesto, ha potuto pronunciare una frase che, al netto della retorica, fotografa bene il nuovo equilibrio: “Quando il Brasile è trattato con rispetto, cambiano anche le regole del gioco”, ha sottolineato, trasformando la vittoria sui dazi in un manifesto politico.

Dietro quella frase c’è un messaggio rivolto sia agli Stati Uniti sia ai partner del Sud globale: il Brasile non accetta più di essere una pedina sacrificabile nella guerra commerciale di altri. Se la Casa Bianca vuole il suo aiuto per raffreddare i prezzi dei beni alimentari, deve riconoscerne il ruolo strategico e sedersi al tavolo come con un interlocutore pari, non con un Paese da disciplinare.

L’Europa che si è arresa prima di combattere

Il contrasto con l’Unione europea è impietoso. Mentre Lula stringe i pugni e ottiene risultati, Bruxelles ha scelto la strada del compromesso preventivo. Nel pieno della tensione sulle tariffe, l’Europa ha accettato un accordo che congela in modo strutturale dazi fino al 15% su una parte sensibile dell’export europeo verso gli Stati Uniti, in cambio di un alleggerimento sulle auto e di qualche concessione su altre voci commerciali.

Nella pratica, Washington mantiene buona parte della pressione sull’industria europea, mentre l’UE si impegna a ridurre o azzerare i propri dazi su molte importazioni statunitensi e ad aprire ulteriormente i propri mercati. Il tutto senza ottenere garanzie solide sulla stabilità futura delle misure Usa, che restano legate agli umori di una Casa Bianca dichiaratamente imprevedibile. È difficile non leggere in questa scelta un atto di debolezza.

Non a caso, all’interno dell’Unione la reazione è stata feroce: governi preoccupati, associazioni di categoria sul piede di guerra, eurodeputati che parlano apertamente di “resa anticipata”. L’idea che l’Europa abbia barattato la propria autonomia strategica con un armistizio fragile con Trump ha preso piede in fretta. E in questo clima, la figura di Ursula von der Leyen è apparsa sempre più appannata.

Il silenzio di Ursula e la frattura con i cittadini europei

Dopo aver rivendicato per mesi la necessità di “evitare una guerra commerciale totale” con gli Stati Uniti, la presidente della Commissione europea è scivolata in un silenzio che pesa come un giudizio politico. Mentre l’impatto dei dazi americani continua a farsi sentire su diversi settori strategici, e mentre i produttori europei vedono crescere i costi e l’incertezza, von der Leyen non è più la voce in prima linea nel difendere la scelta compiuta a Bruxelles.

Il problema non è solo di comunicazione. Molti cittadini europei percepiscono l’accordo come uno scambio impari: l’Europa ha concesso molto in termini di apertura dei propri mercati, senza ottenere la stessa fermezza che Lula ha mostrato nel difendere l’interesse nazionale brasiliano. Nel confronto fra la foto del presidente brasiliano che celebra la caduta dei dazi e l’immagine di una Commissione europea costretta a giustificarsi, l’Unione esce con le ossa rotte.

Così, la presidenza von der Leyen rischia di essere ricordata non per l’ambizione della transizione verde o per la gestione di dossier complessi, ma per un compromesso al ribasso con l’America di Trump. Una scelta che ha rafforzato l’idea, già diffusa, di un’Europa incapace di parlare il linguaggio del potere quando il tavolo è quello del commercio globale.

Nessuna cura per il deficit commerciale, solo un conto più salato

Mentre Lula può esibire un successo concreto, Trump non può dire lo stesso. Il deficit commerciale americano resta strutturalmente elevato. Gli studi macroeconomici più recenti lo ripetono con chiarezza: non sono i dazi a determinare la bilancia commerciale di un Paese, ma il rapporto fra risparmio e investimenti interni, la politica fiscale, il ciclo del credito. Le tariffe possono spostare una parte dei flussi, non cambiare la matematica dell’economia.

Nel caso americano, la combinazione di forte disavanzo di bilancio, dollaro ancora dominante e domanda interna robusta rende quasi impossibile azzerare il deficit con qualche punto di dazi in più. Quello che i dazi hanno prodotto davvero è un aumento del livello dei prezzi, una riduzione dell’efficienza produttiva e un clima di incertezza che scoraggia investimenti di lungo periodo. Il contrario di ciò che servirebbe per “far tornare grande l’America”.

Non solo: i benefici fiscali dei dazi, pur consistenti in termini di entrate per il Tesoro, si scontrano con i costi sopportati da famiglie e imprese. Ogni dollaro incassato sotto forma di tariffa è un dollaro tolto a consumatori e aziende, spesso in modo regressivo, perché colpisce in misura maggiore le fasce di reddito più basse, che destinano una quota più ampia del budget ai beni soggetti ai dazi.

La caduta nei sondaggi e il nervosismo alla Casa Bianca

Non sorprende, quindi, che i sondaggi inizino a raccontare un’altra storia rispetto alla narrativa trionfalistica della Casa Bianca. Le rilevazioni nazionali delle ultime settimane mostrano una disapprovazione crescente nei confronti del presidente, con il giudizio più severo proprio sulla gestione del costo della vita. La maggioranza degli intervistati dice di spendere di più per spesa e bollette rispetto a un anno fa, e una quota significativa attribuisce il peggioramento almeno in parte alle politiche commerciali di Trump.

In alcuni segmenti chiave dell’elettorato – a partire dalle minoranze urbane e da una parte dei ceti medi – si registra una vera e propria rottura di fiducia. Molti elettori che nel 2024 avevano scelto Trump per la promessa di domare l’inflazione oggi si dichiarano delusi o pentiti. In diversi collegi in bilico, sondaggi interni mostrano un vantaggio crescente delle opposizioni proprio nelle aree dove i rincari hanno colpito più duramente il carrello della spesa.

La Casa Bianca reagisce con una frenesia comunicativa sempre più evidente: conferenze stampa, comizi, dichiarazioni in cui il presidente cerca di attribuire la responsabilità dei prezzi alle scelte del passato o ai partner stranieri. Ma ogni volta che viene annunciato un nuovo ritocco ai dazi in senso restrittivo, i mercati e gli analisti mettono in fila gli stessi tre effetti: prezzi più alti, crescita più debole, incertezza maggiore.

L’America dei dazi e dei bracci della morte

Sul fondo, c’è un’altra immagine che pesa sulla reputazione globale degli Stati Uniti: quella di un Paese che, mentre brandisce la leva dei dazi, accelera anche sul terreno della pena di morte. Nel solo 2025 sono state eseguite decine di condanne capitali, con alcuni Stati – fra cui la Florida – che hanno raggiunto livelli record di esecuzioni rispetto all’ultimo decennio.

Non si tratta solo del numero complessivo, già di per sé impressionante. A preoccupare organizzazioni per i diritti umani e relatori delle Nazioni Unite è soprattutto l’uso sempre più frequente di metodi come l’ipossia da azoto, un sistema di esecuzione definito da esperti indipendenti dell’ONU potenzialmente “crudele” e “inumano”. Mentre il dibattito internazionale si sposta verso la limitazione o l’abolizione della pena capitale, una parte dell’America di Trump va nella direzione opposta, rivendicando la durezza come segno di forza.

Il messaggio che arriva all’estero è quello di un Paese che si presenta come fortezza assediata: dazi alle frontiere, barriere al commercio, bracci della morte pieni. Una narrativa che può funzionare con una parte della base interna, ma che erode il capitale di soft power degli Stati Uniti e ne indebolisce la capacità di dettare le regole del gioco globale.

Lula, Trump e la lezione per l’Europa

In questo quadro, la scena di Lula che celebra la caduta dei dazi su carne, caffè e frutta ha un valore che va oltre la contingenza: racconta la storia di un Paese che ha scelto di resistere alla pressione, rifiutando soluzioni facili ma pericolose nel lungo periodo. Il Brasile non ha ceduto al ricatto delle tariffe punitive, ha continuato a negoziare, ha consolidato la propria credibilità internazionale e ora può presentare agli elettori un risultato tangibile.

Trump, al contrario, è costretto a fare dietrofront proprio sul terreno su cui aveva costruito il suo mito di uomo forte: i dazi. La decisione di alleggerire il peso sulle importazioni alimentari è, politicamente, un’ammissione implicita di fallimento. La guerra commerciale non ha ridotto il deficit, ha alimentato l’inflazione, ha irrigidito i rapporti con alleati e partner strategici e ora sta presentando il conto anche nei sondaggi.

E l’Europa? L’Europa è rimasta a metà del guado. Ha firmato un accordo che appare più vicino a una capitolazione che a un compromesso equilibrato, ha accettato di giocare sul terreno di Trump senza costruire una vera strategia autonoma di difesa dei propri interessi e oggi paga il prezzo di una leadership percepita come esitante. Il silenzio di Ursula von der Leyen non è solo una scelta tattica: è il simbolo di una stagione politica che rischia di essere ricordata più per ciò che non ha saputo evitare che per ciò che ha costruito.

La lezione che arriva da questa vicenda è brutale ma chiara: chi tiene il punto con coerenza e visione può costringere anche la superpotenza a cambiare rotta. Chi si affida solo alla paura della guerra commerciale e accetta di firmare al buio, invece, scopre troppo tardi che la vera perdita non è solo economica, ma di credibilità. Lula questo lo ha capito. Trump comincia a intuirlo. L’Europa, per ora, resta a guardare.

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