Riforma sui criteri di montanità, Appennino che sarà penalizzato e Alpi al centro del dibattito.
È scoppiata una vera e propria tempesta politica e territoriale attorno alla nuova legge nazionale sulla montagna (Legge 131/2025), firmata dal Parlamento italiano e con criteri di attuazione che rischiano di modificare radicalmente quali enti locali possono essere considerati “montani” e quindi beneficiari di fondi pubblici stimati in circa 200 milioni di euro all’anno per il triennio 2025-2027.
Riforma storica o taglio drastico?
La legge, entrata in vigore il 19 settembre 2025, sostituisce criteri ormai obsoleti risalenti al 1952 e mira a definire con precisione cosa significhi “montagna” nel contesto italiano, distribuendo risorse per sanità, istruzione, servizi e sostegno alle comunità marginali.
Tuttavia, i criteri tecnici che stanno emergendo nei decreti attuativi – in particolare quelli proposti dal Ministro per gli Affari regionali, Roberto Calderoli – hanno acceso forti contestazioni.
I tre criteri per essere “montano” secondo l’esecutivo
Negli incontri pubblici organizzati per la Giornata internazionale della montagna, Calderoli ha illustrato tre principali criteri di classificazione:
- almeno il 25% del territorio oltre i 600 metri di altitudine;
- una parte significativa del comune con pendenze superiori al 20%;
- considerazione di comuni “interclusi” circondati da aree che soddisfano i requisiti.
Questo approccio porta a una stima di circa 2.800 comuni montani, contro gli oltre 4.000 riconosciuti nella classificazione precedente, con una riduzione di quasi il 30% delle comunità classificate.
Perché l’Appennino si sente tradito
Le proteste sono arrivate soprattutto dalle regioni appenniniche e dagli enti locali: sindaci e associazioni come Uncem e Anci denunciano che i nuovi parametri penalizzano territori con quote medie più basse, nonostante la loro fragilità demografica e ambientale.
Secondo queste voci critiche, l’aggiornamento normativo rischia di creare una divisione artificiale tra montagne “di serie A” e “di serie B”, privilegiando di fatto le Alpi, spesso più elevate e con pendenze accentuate, a scapito degli Appennini, dove montagne più basse ma altrettanto fragili occupano un ruolo centrale nel contrasto allo spopolamento e alla tutela del territorio.
Reazioni locali e clima politico
Il presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani, ha accusato l’esecutivo di giro di vite ingiustificato, sottolineando che comuni toscani riconosciuti oggi rischiano di passare da 149 a circa 80 sotto la nuova normativa.
In Emilia-Romagna e Liguria sono partiti appelli analoghi, mentre alcune piccole comunità interne, specie nell’Appennino bolognese, hanno annunciato mobilitazioni e richieste di ristoro legislativo, sostenendo che la montagna sia una risorsa nazionale da proteggere, non da ridimensionare.
Il nodo dei fondi e le prospettive
La legge montagna destina risorse a servizi essenziali, incentivi per medici, insegnanti, infrastrutture digitali, mobilità e agricoltura, con l’obiettivo dichiarato di invertire la tendenza allo spopolamento.
Ma senza criteri condivisi e senza un confronto profondo con le comunità interessate, l’attuazione rischia di generare nuove spaccature piuttosto che affrontare le sfide storiche delle terre alte.
Una svolta attesa, ma a quale prezzo?
La revisione dei criteri di montanità era prevista da decenni: l’ultimo aggiornamento serio risaliva a oltre trent’anni fa, e l’introduzione di una legge organica rappresenta un passo importante per le comunità di montagna italiane.
Resta però aperta la questione più complessa: come conciliare una classificazione geograficamente rigorosa con le esigenze sociali, economiche e culturali di territori spesso fragili e isolati?
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